Letteratura

Il volto osceno del Potere nelle favole nere di Sciascia e Orwell

Nel porcile della dittatura, dove l’umanità è carne da macello

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Locandina di Porcile, diretto da Pier Paolo Pasolini, 1969.

Di: Lucrezia Greppi 

«Non esistono fiabe che non siano cruente. Ogni fiaba proviene dal profondo del sangue e della paura», sosteneva a ragione Kafka, senza aver letto, per ragioni anagrafiche, né Animal farm - a fairy story di George Orwell (1945) né le Favole della dittatura di Leonardo Sciascia (1950). «L’elemento greve e tragico della dittatura», in queste due favole nere, è trasposto «in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire», come notava Pasolini recensendo la primissima opera dello scrittore siciliano, ispirata a La fattoria degli animali. «Questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso», aggiungeva l’acuto critico, «sono assorbiti nel contesto di [un] linguaggio così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola». Un’analisi, su cui ritorneremo, che ben si adatta anche al capolavoro orwelliano, in cui la limpidezza del racconto è intrisa di concetti complessi che svilupperà nell’ancor più celebre 1984 – libro assai caro a Sciascia –, pubblicato solo quattro anni dopo.

Pensiamo all’arcinota espressione “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri”, uno dei sette comandamenti traditi dai tiranni -suini della fattoria, così abili nel manipolare la verità, predicare un ideale e il suo opposto (“Nessun animale ucciderà un altro animale, senza un motivo” è un’ulteriore legge sibillinamente sconfessata), confondere le acque e sguazzare nella menzogna. Gli inconsapevoli sudditi finiscono per dubitare dell’esistenza stessa dei principi dell’Animalismo («Sicuri che non sia qualcosa che avete solo sognato, compagni?» chiede loro il subdolo Trombetta), perché le regole vengono riscritte, i testimoni vaporizzati, e i sopravvissuti non hanno nemmeno più il tempo di pensare. Gli animali continuano infatti a sgobbare e a soffrire la fame, mentre le bestie suine, sempre più sinistramente umane, ingrassano a dismisura: Napoleone-Stalin arriva a pesare “centocinquanta chili” mentre il suo fedele propagandista era “così grasso che riusciva a malapena ad aprire gli occhi”.

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«Tanto era grasso, il porco, che per tutta una notte non sentì il topo rosicchiargli un fianco»: è questa, invece, una delle favole di Sciascia in cui riflette sui privilegi grotteschi dei corrotti. Come già nell’opera di Orwell, i tiranni ammantano di virtù i loro vizi: «Giorno e notte vigiliamo sui vostri interessi. È per il vostro bene che beviamo quel latte e mangiamo quelle mele» dicono i porci de La fattoria degli animali; «Se mangio, è soltanto per voi che lo faccio. Infatti, non sapreste senza di me come vivere», dice il leone allo spelacchiato lupo delle Favole della dittatura. E ancora, dei suini tanto odiati da Orwell, dai tempi in cui fu un fattore, si parla nel lugubre racconto sciasciano in cui figura esangue: «Il porco […] intravide il muso di un altro porco sospeso su di sé. Guardò meglio: era una testa appesa a un gancio, sembrava intenebrata di sonno».

Il volto osceno del Potere, specchio delle deformità morali, è pure l’oggetto delle due epigrafi di Favole della dittatura. La prima è tratta, non a caso, dall’epilogo de La fattoria degli animali: «Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due». La seconda, è una citazione del libro Parliamo dell’elefante di Leo Longanesi: «Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?». Al di là dei possibili modelli, come «l’uomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore» (forse Achille Starace), invidiato dalla scimmia che vive felicemente ingabbiata, Sciascia riesce a restituirci nella sua interezza, in queste brevissime favole, i meccanismi del dominio e della servitù volontaria. Simbolici in tal senso i racconti con protagonisti un asino, che rimpiange la morte del suo fustigatore («ogni sua bastonata mi creava una rima»), e un cane assuefatto alla violenza: «Quando si acculava pieno di noia ai piedi del padrone, amava la fresca sensazione dell’odore di trementina che le scarpe gli davano. […] Il pensiero dei calci ricevuti e da ricevere si fuse in quell’odore gradevole, acquistò una certa voluttà».
C’era una volta e ci sarà sempre chi è schiavo del potere, per servilismo o pusillanimità, chi annuisce a capo chino e chi infila la testa sotto la sabbia. Come la talpa della favola di Sciascia, che diserta la «rivoluzionaria occupazione» progettata dai topi e dalle faine «ai margini di una fattoria», programmandola per l’inverno, quando lei sarà al sicuro nel sottosuolo.

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Immagine di copertina, George Grosz, Circe, 1927

«Di questo libretto», sottolineava ancora Pasolini, «non si può insinuare che sia dovuto ad un senno o, nella specie, a una vena satirica del poi, mentre invece è attuale proprio nel suo venire “poi”, nel suo guardare le cose vicine col binocolo alla rovescia». Orwell e Sciascia pubblicarono le loro favole a guerra finita; l’uno allude ai bolscevichi, l’altro ai fascisti. Le loro opere, tuttavia, non si rivolgono al passato, a un’esperienza chiusa e circoscritta in un’etichetta politica (sia essa la dittatura nera o rossa), ma al contrario sono lucidi moniti per l’avvenire. Lo chiarirà lo stesso Sciascia in un’intervista del 1981 rilasciata alla RSI («io non distinguerei tra Mussolini e Stalin») e soprattuto in un articolo del 18 dicembre 1983 per l’Unità, dove si sofferma su 1984, da lui letto a puntate sul settimanale Il mondo. «Orwell concepì il libro come una profezia», premette Sciascia, «e non c’è dubbio che intendesse profetizzare, date le premesse dello stalinismo, una ulteriore riduzione delle libertà e della libertà nel mondo comunista». E aggiunge: «Ma possiamo oggi continuare a leggere il libro come se soltanto riguardasse quel mondo e non tutto il mondo? E non dico tutto il mondo nel suo correre verso dittature più o meno etichettate come comuniste, ma tutto il mondo sia nel suo dirsi comunista sia nel suo dirsi contro il comunismo e per la libertà». Il romanzo distopico orwelliano, concludeva, è «una profezia su un processo di restrizione delle libertà e della libertà che credo si sia irresistibilmente avviato anche nel mondo cosiddetto libero».

«Crediamo che, nonostante la sua esperienza di uomo lo portasse ad una diretta avversione al comunismo», scriveva Sciascia già una trentina di anni prima, «Orwell abbia voluto gridare all’uomo del suo tempo il pericolo della dittatura». 1984 è «il suo grido ultimo», «un testamento spaventoso», un «s.o.s. non captato», l’annuncio inascoltato di «una tremenda apocalisse». Al «tramonto della ragione» e alla «morte della speranza» Sciascia contrapponeva infine la «speranza Cristiana». Lo scriveva sul periodico La Prova il 15 marzo 1950, anno in cui videro la luce le sue cupe favole e in cui si spense Orwell.

Un grido di speranza, quello di Sciascia, fuori dal coro di chi strilla, oggi come allora «Viva la muerte». Affinché la Storia, esemplificata nella favola del cane e del coniglio, non si ripeta:

«C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono. Disse il coniglio: “Gli ortaggi tu non li mangi; il padrone ti tratta a crusca e calci. La notte potresti serenamente dormire, lasciarmi un po’ in pace tra le verdure e i melloni. Che tu mi faccia paura, non vuol dire che la tua sia migliore condizione della mia. Dovremmo riconoscerci fratelli”. Il cane lo ascoltava, pigramente disteso, e il muso sulle zampe. E poi: “Quello che tu dici è vero; ma per me non c’è niente che valga il gusto di farti paura”».

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Intervista-ritratto a Leonardo Sciascia

RSI Cultura 12.01.2024, 08:12

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