Il vuoto, come siamo abituati a pensarlo in Occidente, s’apparenta al nichilismo. Di tutt’altro tenore è invece la concezione orientale del vuoto, dove indica la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose.
Ma andiamo con ordine. In tutte le lingue occidentali la parola e il concetto di vuoto trasmettono significati negativi: mente vuota, stomaco vuoto, vita vuota, senso di vuoto. Al contrario, nelle grandi civiltà d’Oriente, in particolare nell’India buddhista e nella Cina taoista, la parola vuoto ha un significato positivo, assolutamente positivo.
Per capire la positività del vuoto vale la pena ricordare uno dei passi più celebri del taoismo classico, presente nel capitolo XI del Tao Te Ching, in cui si afferma che l’utilità di un carro non sta nei raggi della ruota, ma nello spazio vuoto in cui si innesta il mozzo (senza questo vuoto l’utilità del carro non ci sarebbe); stesso discorso vale per la casa, la cui utilità non sussisterebbe senza il vuoto delle porte, delle finestre e degli spazi interni, e ancora, altro esempio, il vaso: anch’esso sarebbe privo di utilità senza il vuoto presente al suo interno.
Già da questi esempi si intuisce il ribaltamento della concezione occidentale. Mentre nella filosofia degli oggetti, nell’arti plastiche e nell’architettura d’Occidente prevale l’attenzione alla forma esterna, al contenitore, al pieno; in Oriente l’attenzione è rivolta al contenuto di vuoto. Questo vuoto, inerente agli oggetti, non è però ancora il fondamento assoluto. Il vuoto del vaso è sempre in relazione al suo pieno. Si tratta di un vuoto determinato; è, in un certo senso, un’assenza di pieno. Vi è, però, un altro vuoto che occorre considerare, ed è il Grande Vuoto che ingloba il vaso e il suo vuoto determinato. Il taoismo distingue infatti fra due vuoti, il piccolo vuoto all’interno del vaso (vuoto determinato) e il Grande Vuoto che lo ingloba.
Il Grande Vuoto è lo sfondo che statuisce l’esistenza di tutte le cose (le quali, a loro volta, si costituiscono di un vuoto e di un pieno determinato). Questo è il grande insegnamento del taoismo: ovvero che tutte le cose (non solo quelle fisiche, ma anche quelle psicologiche) non esistono in sé stesse, ma esistono in quanto accolte e inglobate dentro il Grande Vuoto. In altre parole, tutti i pieni determinati (vasi, carri, case, ecc.) con i loro vuoti determinati, sono contenuti in un enorme Vuoto. E questo Vuoto non è inerme, ma palpitante; è, di fatto, l’origine e la condizione di possibilità di tutte le cose.
Attenzione, dunque, a non confondere il Vuoto con il non-esserci delle cose. Esso, al contrario, ne è l’origine e il traguardo. Questa visione del Vuoto, nel buddhismo ha dato origine al concetto della non-esistenza delle cose in se stesse (anattā), le quali in realtà esistono solo poiché implicate nel Grande Vuoto, che fa loro da sfondo e le sostanzia, co-implicandole in un di più che è appunto la vacuità.
Nel Dhammapada (testo del V secolo a. C.), c’è un verso che descrive proprio questa concezione: tutte le realtà sono anattā, cioè prive di sé. In altre parole, per il buddhismo il non-sé è la caratteristica di tutte le realtà (non solo fisiche, ma anche psicologiche, come i sentimenti, le emozioni, e anche mentali, come i concetti, le idee, le ideologie, le religioni). In sé e per sé non c’è nulla di autonomo, nessuna persona e nessun oggetto può esistere in se stesso. Ogni cosa esiste solo in relazione a tutto il resto e da ultimo in relazione al Grande Vuoto, che è la scaturigine di tutti i possibili.
Il Grande Vuoto non può essere compreso razionalmente. Esso non emerge da riflessioni teoriche ma dalla pratica meditativa. La meditazione, secondo il buddhismo, è l'unica possibilità che abbiamo per fare esperienza del Vuoto in noi stessi (nella mente, nel cuore, nel corpo). Un’esperienza che ci consente di percepire dentro di noi la nostra non-sostanzialità (anattā) e la nostra non-permanenza (aniccā), che sono le premesse per entrare in contatto con il Grande Vuoto universale e per essere parte di esso, vuoti nel Vuoto. Del resto, la respirazione (su cui si fonda ogni pratica meditativa) porta con sé proprio questo duplice insegnamento: ci insegna l’impermanenza (essendo un processo che va e viene, sempre in divenire, aniccā) e allo stesso tempo ci insegna l'insostanzialità (la respirazione è infatti possibile solo grazie alla continuità dell’aria interna e di quella esterna, grazie alla trasformazione simultanea dell’una nell’altra, senza possibilità di identificazione fra l’aria che è dentro e quella che è fuori, e questa è la prova provata del concetto di anattā, ovvero del non-sé di ogni cosa).
La teoria del Vuoto diventa di fatto un'esperienza del Vuoto: un fare il Vuoto in sé stessi grazie alla meditazione, per scoprire in fondo che la nostra essenza profonda è anch’essa impermanente, eterna, increata. Questa esperienza toglie sostanzialità al soggetto che la pratica, il quale scopre di conseguenza l’insostanzialità non solo di sé (dei propri pensieri, del proprio corpo, delle proprie idee) ma dell'intera realtà. Vale in questo senso ciò che ha annotato Suzuki, il maggiore studioso contemporaneo del buddismo zen: quando i sutra affermano che tutte le cose sono vuote, non nate, e al di là della casualità, questa affermazione non è il risultato di un ragionamento metafisico, ma il frutto di un'esperienza estremamente penetrante. È la scoperta di esser vuoti nel Vuoto, di essere increati nell'Increato.
Il Vuoto, insomma, è la nostra Grande Casa, la casa da cui veniamo e a cui siamo destinati, dopo il nostro transito terrestre. E se al Vuoto si sostituiscono i concetti di Uno, di Spirito, di Tao, di Brahman, ecco che vediamo che tutte le grandi filosofie sapienziali hanno individuato in questa dimensione non solo la nostra origine e il nostro destino, ma il nostro vero Essere (da non confondere, direbbe il compianto Emanuele Severino, con il nostro esser-ci). Una realtà attingibile non per via razionale, ma per via mistica, meditativa o contemplativa.