L’intervista

La pace? “Si fa col disarmo”

Alla RSI parla il cardinale Matteo Zuppi: «Il seme del nazismo e del fascismo, nonostante la lezione terribile della guerra, purtroppo ha ancora dei seguaci»

  • 31.12.2024, 12:00
  • 3 gennaio, 10:27
26:32

Il coraggio di parlare di Pace

Laser 08.01.2025, 09:00

  • Reuters
Di: Alessandro Bertellotti e Paolo Rodari 

A un anno e mezzo dalla nomina come inviato di pace in Ucraina per conto di papa Francesco, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e capo dell’episcopato italiano, racconta alla RSI la sua strada per la pace, «che nasce anzitutto dall’interrompere il meccanismo del rialzo degli strumenti bellici». Dalla sua abitazione in centro a Bologna, Zuppi parla del conflitto in Ucraina, che «è iniziato nel 2014 e non si è mai arrestato», della necessità di trovare «una pace duratura» con un negoziato nel quale tutte le parti «sono convinte per la pace». E ancora del ruolo dell’Europa e dell’allarme perché «il seme del nazismo e del fascismo, nonostante la lezione terribile della guerra, purtroppo ha ancora dei seguaci».

Eminenza, il nuovo anno si apre con un messaggio del Papa che chiede ancora una volta la pace nel mondo. “La vera pace – dice – nasce da un cuore disarmato”. Cosa significa e come si può oggi avere speranza?

«La pace nasce da un cuore che non risponde al male col male, un cuore disarmato. Che non significa però ingenuo, non significa debole. Tutt’altro. È una forza pelosa e pericolosa quella che si contrappone a un’altra forza, e che molte volte porta a compiere gesti o a dire parole o a perdere opportunità proprio perché è una forza offensiva e distruttiva. Quindi bisogna disarmare. Forse dovremmo anche cominciare a parlare di più di riarmo e non di disarmo. Se vogliamo davvero costruire la pace dobbiamo cominciare a interrompere il meccanismo del rialzo degli strumenti bellici. Dobbiamo costruire la pace anzitutto spegnendo gli incendi che ci sono e lavorando per un quadro di pace che garantisca una pace giusta ai belligeranti, ma che insieme possa anche rappresentare un quadro di stabilità, di convivenza indispensabile, perché altrimenti la pace diventa solo una tregua».

Francesco parla di «élites» che, come «ai tempi di Gesù», approfittano delle sofferenze dei più poveri. È davvero così ancora oggi?

«Difficile stabilire un rapporto diretto di causa effetto, ma certamente la guerra vuol dire che qualcuno si arricchisce. Gli interessi dei costruttori di armi sono interessi enormi, perché il costo di un missile è un qualcosa di impensabile, scandaloso rispetto alla fame, alla mancanza di scuole, di opportunità di lavoro... Quindi mettere i soldi sul riarmo vuol dire oggettivamente toglierli da altre cose e questo crea povertà oltre che distruggere. Tuttavia, ripeto, il rapporto causa effetto è difficile da stabilire ma certamente ci sono degli interessi talmente grandi che possono condizionare le scelte dei singoli Paesi».

Le è mai capitato di parlare con un governante, con un politico, il cui Paese produce armi e le vende? Cosa gli dice?

«A cominciare dal nostro – dall’Italia, ndr – penso che dobbiamo evitare la gara, perché se il meccanismo è che per difendermi devo avere di più degli altri, cioè appunto la corsa al riarmo, è ovvio che siamo tutti costretti a scegliere questa strada. Dobbiamo proprio cambiare categoria. Dobbiamo cambiare competizione, dobbiamo fermarci e provare a riabbassare tutto quanto».

Lei ha lavorato con efficacia per la pace in Mozambico, arrivando agli accordi di pace del ’92. Oggi il Papa la invia sui fronti più caldi, fra cui l’Ucraina. Cosa sta accadendo in quel Paese? Si è davanti a uno scontro inesorabile, ineluttabile, fra Russia e Occidente? Oppure che idea si è fatta?

«È chiaro che ogni conflitto ha una sua storia e noi molte volte perdiamo la memoria o leggiamo soltanto l’ultima parte di questa storia senza comprenderne le radici antiche, le cause profonde, la complessità. Ecco, per esempio, è chiaro che il legame fra Russia e Ucraina è un legame profondissimo, con anche una storia di incomprensioni e di un conflitto che non è nato due anni fa, ma che perlomeno possiamo farlo risalire al 2014 con gli accordi di Minsk e con una violenza che ha attraversato il territorio ucraino, in particolare le province russe del territorio ucraino, che non si è mai arrestata. Allora teniamo presente questa complessità e da questa traiamo le indicazioni per una soluzione duratura che permetta di vivere insieme, di ricominciare una convivenza tra Ucraina e Russia. Anche perché la geografia non si cambia».

Lei ha accennato al Mozambico, ci ha raccontato la sua esperienza personale, le sue sensazioni, quando ha affrontato quel processo di pace in quel contesto di guerra civile, come ha intravisto una speranza di pace?

«In Mozambico la pace è stata raggiunta dopo due anni di negoziato che all’epoca ci sembravano tantissimi. In realtà, a pensarci bene, sono stati molto pochi. Ogni situazione è diversa, quindi sarebbe sbagliato fare di quanto accaduto in Mozambico un metodo. Non c’è un metodo, ma ogni soluzione, ogni dialogo può offrire delle indicazioni. Per quanto riguarda il Mozambico ricordo anzitutto la formula: c’erano il governo e una realtà non governante come la Comunità di Sant’Egidio, quindi il coinvolgimento della Chiesa mozambicana, c’era il vescovo che era una garanzia di “mozambicanità”. Noi italiani eravamo percepiti come neutrali ma anche una presenza di garanzia per i locali. Quindi, in ogni contesto una formula va trovata. E va trovata ma anche con grande creatività per garantire il più possibile alle parti la neutralità della mediazione o della facilitazione. Inoltre, nella seconda parte del negoziato coinvolgemmo le Nazioni Unite, volutamente, con molta insistenza. Perché l’accordo andava poi applicato e chi doveva applicarlo erano le Nazioni Unite. E quindi fare degli accordi senza di loro non andava bene. Queste due indicazioni sono dunque state importanti: le Nazioni Unite e la formula di garanzia dell’accordo sia politica sia militare».

E in quel contesto di guerra civile lei come ha intravisto una speranza di pace?

«In realtà si vedeva che, nel desiderio a volte molto nascosto, molto sepolto sotto le ragioni della violenza e della guerra, le due parti desideravano chiudere il conflitto. E poi nel dialogo che era veramente tra di loro: cioè la comunità internazionale deve influire, non c’è dubbio, soprattutto nelle garanzie, e anche nello spingere per il negoziato, ma se poi le parti non sono convinte, lo fanno solo per compiacenza o per piccolo opportunismo, allora i conflitti continuano e non si arriva nemmeno a una fine, anche se provvisoria. Per cui penso: la complessità del dialogo e la chiarezza delle soluzioni, la condivisione del testo, sono tutte quante indicazioni importanti per un accordo che sia applicabile e applicato».

Lei ha recentemente scritto “Dio non ci lascia soli. Riflessioni di un cristiano in un mondo in crisi”. Le guerre continuano in varie parti del mondo, a Gaza, in Siria. Perché allora intitolare un libro “Dio non ci lascia soli”?

«Perché il problema è che lui non ci lascia soli. Sono gli uomini che non lo stanno a sentire. Siamo noi che vogliamo far da soli e soprattutto non lo stiamo a sentire nella sua chiarissima indicazione che la vita è un dono suo. E per i cristiani l’indicazione è che siamo chiamati ad amare anche i nemici, quindi non dobbiamo avere nemici. Se l’uomo ascoltasse un po’ più Dio e non si mettesse a farsi lui Dio, probabilmente ci sarebbero meno guerre e sarebbe più facile trovare soluzioni».

Da più parti si parla anche del ritorno di alcune ideologie che sembravano essere state sepolte una volta per tutte dalla storia. Anche si parla di certi rigurgiti di fascismo che sembrano ciclicamente tornare, anche se il fascismo è morto e sepolto. Insomma, appartiene al passato. Ma secondo lei questo è un rischio reale?

«Quello che Eco chiamava il fascismo eterno c’è sempre, la prevaricazione, la violenza, la distorsione del potere. I totalitarismi si assomigliano tutti anche nei mezzi che sceglie. Quindi questo è quello che noi dobbiamo combattere con fermezza. Poi credo che ci siano preoccupazioni anche perché il seme del nazismo e del fascismo, nonostante la lezione terribile della guerra, purtroppo ha ancora dei seguaci. E in questo caso ci sono le norme e le regole che devono essere applicate. Però il vero nodo è il fascismo eterno di cui parlava Eco, l’esclusione dell’interlocutore, la criminalizzazione, l’ignoranza. Sono tutte quante preoccupazioni che dobbiamo avere».

Soprattutto in Europa, ma anche nel mondo, le grandi religioni sembrano in crisi. Tra queste il cristianesimo e nel cristianesimo il cattolicesimo. Almeno crisi di numeri. Eppure un bisogno di spiritualità sembra esserci sempre. Perché questo paradosso?

«Perché non lo sappiamo intercettare. Perché qualche volta parliamo sopra gli altri o pensiamo di aver già capito. Oppure ci preoccupiamo più delle distinzioni che della comunicazione. C’è un grande bisogno di spiritualità che il materialismo non ha sepolto. Qualcosa di spirituale è connotato dentro la natura della persona, quindi dobbiamo essere più attenti a parlare e ad ascoltare questo bisogno e rimetterci in cammino per aiutare a trovare delle risposte».

Benedetto XVI diceva che secondo lui il futuro del cristianesimo poteva essere nelle minoranze creative. Condivide questa visione?

«Molto. Il cristianesimo è comunità e ritroverà sé stesso se saprà essere comunità. E poi se saprà essere minoranza creativa. A mio parere è sempre stato in minoranza, perché anche quando era in maggioranza la cristianità in realtà è sempre stata un piccolo gregge. Io penso che papa Francesco ci dà una consegna che è ancora di più della minoranza creativa, che è il fatto di parlare con tutti senza nessun limite, senza nessuna dogana. E nel parlare con tutti, ritrovare l’identità e la forza della Chiesa. Quindi non solo minoranza creativa, ma lievito che si perde per tutta la massa e che in un qualche modo quindi rifà sua tutta la massa, comunica con tutta la massa».

Cosa pensa un vescovo del fatto che alle elezioni americane il 56% dei cattolici ha votato per Trump? Che cosa significa?

«La Chiesa parla con tutti gli interlocutori istituzionali e non istituzionali, sempre con grande libertà. Qualche volta viene interpretata a seconda del vento... Qualcuno tira per la giacca.... Ma la Chiesa non può che essere libera. Però, ripeto, deve parlare con tutti, non si chiude in un Olimpo oppure sale sull’Aventino e da lì guarda e critica. La Chiesa cammina insieme a tutto il popolo, quindi anche insieme a chi lo rappresenta. E le istanze della Chiesa sono per fortuna libere, quindi senza interessi, senza calcoli, e sempre per mettere al centro la persona. Perché questa è l’unica preoccupazione della Chiesa: che ci sia al centro sempre la persona. Se, invece, ad esempio, non c’è lavoro, non c’è la casa, oppure si muore in mezzo al mare, o si pratica l’eutanasia… è chiaro che tutto ciò non può non interessare la Chiesa e credo che questo aiuti tutti non soltanto i cristiani. La dottrina sociale della Chiesa è una dottrina bellissima per tutti. È un minimo comune denominatore che aiuta tutti a fare davvero politica, perché o la fai per la persona oppure la fai per te stesso. Se la fai per una ideologia astratta, rischi di perdere la vera motivazione per cui preoccuparsi della cosa pubblica».

Lei qui a Bologna riesce a dialogare, ad essere ascoltato dalle varie sensibilità che nei decenni passati si sono anche contrapposte nel mondo ecclesiale. Qual è il suo segreto?

«È quello di essere di tutti, nessun segreto. È che la Chiesa è comunione, non è pensiero unico. La comunione è saper vivere anche con sensibilità diverse, volendosi bene per davvero. Per cui io posso pensare diversamente da un altro, ma nella comunione il mio pensiero trova accoglienza e non mi spaventa. Mi spaventa il fatto che c’è molta poca comunione. Crediamo troppo poco nella comunione che può unire storie e sensibilità diverse».

Di pace e della necessità della democrazia parlò Pio XII alla Radio Vaticana nel Natale del ’44. Cosa significò quel discorso?

«Questo discorso mostra la drammaticità di quel periodo. Nel pieno della tormenta si cominciava a intravedere la fine, ma fino all’ultimo giorno di guerra sono morte centinaia di migliaia di persone. Quindi anzitutto la drammaticità e poi la scelta del futuro, la democrazia come la scelta del futuro. Questa è la grande indicazione di Pio XII che dobbiamo accogliere per capire qual è la “manutenzione” che abbiamo da fare, perché la pace non è una volta per sempre. La pace è sempre erosa dal suo nemico che è il male. E quindi dobbiamo chiederci che cosa dobbiamo fare perché la pace sia ancora oggi competitiva contro le logiche della violenza e del male che si adeguano e riescono ad insinuarsi, ad annullare l’intelligenza, a mettere in moto tanti semi di odio, di etnicismo nel senso di chiusura. Penso che quel messaggio ha aperto una grande ricerca, che ha portato al Codice di Camaldoli, per esempio, e a tutto quel coagulo che nasceva sempre dal guardare al futuro. Io aggiungerei anche l’Europa. Perché in fondo Pio XII non offriva una soluzione soltanto all’Italia, ma il suo fu un discorso per tutti. E coloro che l’hanno preso sul serio sono stati anche coloro che hanno costruito l’Europa e ci hanno regalato l’Europa. E non dobbiamo sciupare un patrimonio così importante, per cui non soltanto le persone vivono insieme, ma anche i Paesi scelgono di vivere insieme perché fanno un altro patto tra di loro, perdono sovranità per una sovranità sovranazionale, si ritrovano nella patria europea. Penso che abbiamo molto da fare perché c’è il rischio che non funzioni, se si perde l’anima non funziona l’Europa. E poi c’è anche il rischio che ognuno lasci soltanto quello che non gli interessa e si prenda quello che gli interessa. E questo indebolisce l’Europa».

Il Codice di Camaldoli è un documento programmatico elaborato in Italia nel luglio 1943 da un gruppo di intellettuali di fede cattolica. Tratta tutti i temi della vita sociale. L’Europa ha vinto il premio Nobel per la Pace nel 2012. Lei ha avuto parole importanti nei confronti della stessa Europa, incapace di difendere i valori della pace al di fuori dei propri confini...

«Sì, ma non lo fa perché non si dota degli strumenti per poterlo fare. La tentazione di andare in ordine sparso o di qualcuno che pensa di arrivare prima o di avere dei problemi particolari slegati dagli altri indebolisce tutti. Bisogna dotarsi degli strumenti veri perché la politica europea sia tale e non una faticosissima e quindi alla fine inefficace sintesi di visioni contrapposte o troppo parallele. No, l’Europa deve mettere al centro la persona che è molto diverso, a mio parere, dai diritti individuali. Per questo credo che in un mondo in cui prevalgono la politica dei propri interessi, l’Europa dovrebbe ricordarsi la sua storia e continuare a investire perché ci sia davvero un unico interesse, che è quello di tutti, personale e plurale».

A lei il tema dei migranti sta particolarmente a cuore. Apriamo le Scritture e troviamo quasi in ogni pagina il tema dell’accoglienza. Perché è così difficile in questo momento aprire le pagine delle Scritture e comprendere il valore dell’accoglienza?

«Perché abbiamo paura, e perché ci pensiamo in maniera troppo individuale, sia come persone sia come Paesi. Invece dobbiamo ricordarci che dalle pandemie se ne esce solo insieme e che si può affrontare le sfide poste dalle guerre, dal clima, dalle malattie etc soltanto insieme. Come è stato per il Covid, in cui bene o male c’è stato un aiutarsi per trovare le risposte coi vaccini. E forse dovremmo fare la stessa cosa per la pandemia della guerra, e per le grandi sfide come quella delle migrazioni che è una sfida epocale ovviamente e che deve richiedere appunto una risposta all’altezza. Una risposta europea non può essere affidata soltanto a un singolo Paese, l’onere è qualcosa che interroga tutta quanta l’Europa».

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Guerra in Ucraina: l'intervista al cardinale Zuppi

SEIDISERA 31.12.2024, 18:00

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