La scrittrice sarda Grazia Deledda nacque nel 1871 e crebbe insieme ai primi vagiti dell’Italia unitaria. Una circostanza che rese la sua opera – premiata tra l’altro con il Nobel – una sorta di «difesa del regionalismo» dagli afflati trionfalistici della neonata Nazione.
Un «regionalismo» che qualcuno ha chiamato verista, sottolineando il debito che la Deledda avrebbe avuto con Giovanni Verga. Ma che in realtà è nutrito di una sua precipua originalità.
Se qualcosa contraddistingue nell’intimo la prosa della Deledda è infatti quel grado puro di compassione e adesione ai destini di provincia che in Verga era assai meno marcato. E se un dato spicca su tutti, è la tonalità elegiaca della sua scrittura.
Meno famoso, ma per molti versi più emblematico dei suoi romanzi maggiori – la Deledda ne scrisse una cinquantina, sotto le premurose attenzioni del marito-agente letterario – La madre è il libro che la colloca su questo versante regionalisitico con maggiore perentorietà. E l’approccio al problema del dissidio tra morale cattolica e tentazione al piacere – tema che nasce, insieme alla stessa figura di Nazareno al cospetto della Maddalena, fin dagli albori del cristianesimo – lo dimostra plasticamente. Non siamo di fronte a una speculazione generica, ma a un dato di realtà culturalmente definito: quello della provincia sarda più arcaica e dimenticata.
La Deledda nella Madre compie un’operazione che – malgrado una certa lentezza narrativa – colpisce nel profondo la sensibilità del lettore: ci mostra come l’arcaica sensibilità dei credenti plebei dell’epoca vivesse, pur nel quadro di un corredo di superstizioni, fanatismi religiosi e sensi di persecuzione diabolica, il grande conflitto con le ragioni del corpo.
Un tema che si è dimostrato centrale in moltissima letteratura europea, al punto da diventare quasi il tema del romanzo moderno: il dissidio tra morale e libertà. Ma che la Deledda sviluppa con tale puntiglio psicologico da imprimerne le risonanze su di noi anche a un secolo di distanza.
Cosa infatti penetra il nostro animo nel profondo, attraverso la penna delicata, soave ma incisiva della Deledda? In primo luogo che tutta la storia cristiana, in particolare la storia della cristianissima Italia, è storia di colpe e di peccati. In secondo luogo che in tale contesto di perenne antagonismo tra verità del cuore e verità della fede, in tale estenuante lotta tra tensioni sentimentali e normative morali, la colpa può redimersi quasi sempre o soltanto attraverso un processo di castrazione.
E qui siamo nel ganglio dell’opera della Deledda: in questo complesso di castrazione di cui Freud teorizzò l’importanza e del quale il grande romanzo moderno – da Flaubert a Tolstoj a Kafka – rappresentò le dinamiche nei modi più diversi.
Sembrerebbe quasi di sentir echeggiare le apprensioni di Raskolnikov, che a fronte del proprio delitto andò a cercare il castigo. O di sentir vibrare i turbamenti del giovane Törless, che a fronte dei propri istinti erotici sentì il dovere di chetarli nelle acque lustrali della colpa.
La Deledda si muove più o meno su questo crinale, ma dando alla tematica una connotazione meno angosciosa. Immettendo nella narrazione l’incessante lavorìo della madre per salvare dalla dannazione il figlio prete, infatuatosi di una donna «troppo sola» di nome Agnese, ci introduce a quel «moralismo provinciale» che pretenderebbe di purificare l’umano dai suoi istinti più naturali.
Dove si colloca dunque la verità, su quale versante del dissidio tra morale e piacere, tra etica e libertà? Nessuna risposta è soddisfacente. Il sacrificio o la «castrazione» essendo, in definitiva, l’abdicazione a una verità non meno fondamentale di quella imposta dalla fede e dalla morale collettiva: quella della nostra irrevocabile sensualità.
Paulo, il figlio parroco che la madre cerca di sottrarre dalle maliarde grinfie di Agnese, la donna «troppo sola», affronta in effetti il proprio status di colpevole a un doppio livello: vive la colpa come offesa di sé e dei suoi istinti e la vive, contemporaneamente, come oltraggio dalla morale cristiana e alla deontologia sacerdotale.
Per cui alla fine non se ne esce, nessuno è davvero redento. Per quanto «salvato» dalla tentazione diabolica attraverso il coriaceo lavoro di persuasione della madre, Paulo non lo sarà dal peccato della negazione di sé. E l’unico trionfatore indiscusso sarà il dolore. Dolore di aver rinnegato il cuore e il corpo, dolore di aver scelto il dolore come strumento di espiazione, dolore di non poter vivere altrimenti che nel dolore.
Romanzo tragico, La madre è pertanto una piccola epopea di quel che potremmo definire la fondamentale contraddizione cristiana, che se da un lato esorta e conduce alla virtù, dall’altro mortifica la gioia e nega la libertà.
Un conflitto che il Vaticano esorta a compiere, come a suggerire nel sacrificio ad imitatio Christi qualcosa di lodevole e incommensurabilmente giusto, ma che la vita in sé patisce come un tradimento delle sue istanze fondamentali.
Ben venga quindi la Redenzione, sembra suggerire la Deledda. Ma una volta compiuta, quanta dolorosa amarezza nello scoprirla in contraddizione con la felicità terrena!
Il prezzo della vita
Alice 18.01.2025, 14:35
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