Letteratura

Lo zoo “umano” di Joël Dicker

L’ultimo libro dello scrittore ginevrino è un giallo in bilico tra il mondo dei bambini e quello degli adulti: insolito ma non per questo incoerente con la sua idea di autenticità narrativa

  • 28 marzo, 13:02
09:41

Joël Dicker

RSI Cliché 25.03.2025, 11:00

  • Keystone
Di: Alessandro Chiara 

C’è una parola nella nostra intervista a Joël Dicker che, pronunciata dalla sua bocca, stride con la sua immagine di scrittore di successo. Sembra estranea a una carriera luminosa ed è sorprendente scoprire che invece ne svela il motore profondo: è la frustrazione.

Non solo quella degli esordi. Quella la puoi anche dimenticare, quando hai pubblicato otto libri (“solamente”, dice lui), e venduto milioni di copie.

È quella che diventa fattore di sviluppo, antidoto alle sirene del successo, riscoperta della meraviglia e dell’entusiasmo della scrittura: “Trovo sia importante rimanere inappagati e ricavarne qualcosa di buono. Quando non riesco a fare ciò che voglio, per esempio a scrivere per mancanza di tempo, provo una frustrazione che non mi distrugge, ma mi nutre. Questo è per me un segnale positivo”.

Lo è stato anche all’inizio della sua carriera, quando, dopo tanti rifiuti, si è finalmente posto la domanda giusta: “Perché scrivo? Volevo scrivere perché amavo leggere. E cosa mi piaceva leggere? Romanzi con avventure, respiro, divertimento”. Ha così smesso di scrivere libri che avessero la presunzione di compiacere un editore, per creare una storia che piacesse solo a lui: era La verità sul caso Harry Quebert.

La fedeltà a sé stesso, l’altra faccia della frustrazione, era la risposta che aveva sempre cercato, e che ancora oggi guida la sua produzione: “mi aggrappo all’autenticità. Credo sia ciò che il lettore vuole davvero da me”.

È nel solco dell’autenticità che anche l’ultimo libro di Dicker La catastrofica visita allo zoo (edizioni La nave di Teseo) si ricollega al resto della sua produzione, pur essendo diverso da tutti i gialli precedenti, anche per la sua brevità: “Non c’è un omicidio, non c’è sangue. Ma al tempo stesso i lettori ritroveranno la stessa voglia di girare pagina, ritroveranno un’inchiesta, questa volta condotta da bambini ‘speciali’, che offriranno uno sguardo sul nostro mondo”.

La loro improbabile indagine sul misterioso allagamento della loro scuola aprirà infatti uno sguardo su una realtà popolata da adulti distratti e pasticcioni, animati da buone intenzioni, ma incapaci di offrire risposte credibili su concetti tanto centrali per noi, quanto scontati e, proprio per questo, in pericolo. Nel calderone dell’indagine entrano infatti le domande dei giovani investigatori sulla diversità e sulla democrazia, sull’esercizio del potere e sulla volontà popolare, ridotte a caricature nei farfugliamenti contraddittori dei grandi.

D’altronde non è la prima volta che Dicker gioca coi cliché: “il cliché funziona in un romanzo, perché noi stessi siamo fatti così. Quando incontriamo qualcuno per la prima volta, lo inquadriamo subito, decidiamo che è simpatico o antipatico sulla base di pochi comportamenti. Poi ci si rende conto qualche giorno dopo che le cose stavano diversamente, che non ci ha salutato non perché fosse antipatico, ma perché quel giorno aveva avuto un incidente d’auto ed era sotto choc. Nel romanzo il cliché è un punto di partenza condiviso, con il quale amo giocare. Il lettore ci entra, pensa di aver capito dove io voglia andare a parare, ma poi all’improvviso – paf! - le cose non sono come appaiono”.

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Vedere il futuro, ricordare il passato 

Alice 22.03.2025, 14:35

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  • Michele Serra

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