Anche il Ticino ha una sua Porta Santa, realizzata dai detenuti. Non quella ufficiale che il Papa ha varcato inaugurando il Giubileo 2025, ma una sua riproduzione simbolica e allusiva sull’esempio di quanto fatto nel carcere romano di Rebibbia. A raccontarlo alla RSI è Fra Michele Ravetta, cappellano del Penitenziario cantonale ticinese. Nel laboratorio di falegnameria è stata fatta una Porta Santa con le dimensioni della porta delle celle. Gli uomini detenuti hanno realizzato il telaio in legno, mentre le donne detenute hanno preparato dei fiori di panno per decorare gli stipiti e l’architrave”. L’apertura, continua, è avvenuta con la messa del 1° gennaio, che è stata presieduta dal vescovo Alain (de Raemy, ndr). Io mi immaginavo un rito extra liturgico, una cosa nostra familiare e invece ha voluto passare anche il vescovo perché non voleva perdersi l’occasione di passare l’unica Porta Santa aperta in diocesi”.
Una volta lei, Fra Ravetta, ha detto che il carcere come la malattia, rianima lo spirito religioso...
“La presenza del cappellano, sia in ambito sanitario che carcerario, è lì per accogliere prima di tutto nell’incontro con l’altro. È pur vero che quando si perdono le due realtà importanti della vita, cioè la salute e la libertà, un certo animo religioso può emergere. Ma dal soggetto, non è una realtà che dall’esterno ti viene offerta o imposta. I detenuti devono chiedere loro di vedere il cappellano. Nella richiesta fatta, scocca quella scintilla proprio della libertà dell’incontro. Vero che qualche volta emerge questo bisogno di affidarsi a Dio dopo che si è perso tutto”.
È un affidarsi a Dio o è un affidarsi alla spiritualità più generale?
“Nella spiritualità c’è il posto anche per la religiosità. Se c’è solo religiosità e non c’è spiritualità, allora si cade nel fanatismo. Io incontro più persone spirituali che religiose e mi sta bene così, perché io credo che nell’uomo abiti anche l’ambito spirituale che può manifestarsi nell’ambito religioso”.
Immagino che lei abbia dato molto, ma abbia anche ricevuto molto da questa esperienza.
“Diciamo che ho più ricevuto che dato. Lo vedo nelle lettere che poi ricevo, nelle telefonate, nelle email delle persone che poi riacquistano la libertà. In più tutto quello che porto nel cuore, che ho ascoltato nel segreto della confessione dei colloqui individuali nella cella in un contesto proprio di familiarità. È straordinario come ci si senta al sicuro all’interno della cella col detenuto. È un luogo di grazia, non ho altri modi per esprimere questa bellezza”.
Può condividere un aneddoto, un momento particolare vissuto con un detenuto o una detenuta?
“Gli esempi che ho nella testa e nel cuore sono sicuramente molti. Due nell’ambito della carcerazione femminile: la nascita di un bambino che naturalmente è venuto alla luce in ospedale, ma appena dimesso è tornato in carcere con la sua mamma. Ed era proprio il tempo del Natale. È come se fosse nato Gesù nell’ambito carcerario. Questo mi ha molto toccato e commosso. Invece nell’ambito della carcerazione maschile c’è sicuramente la gratitudine che il detenuto manifesta per una visita che è regolare tre volte a settimana, l’incontro col cappellano, l’intimità dell’incontro, le cose che vengono affidate. Quindi non tanto una persona in particolare, ma tutte quelle persone che hanno sfruttato positivamente la carcerazione anche per interrogarsi del loro mondo interiore”.
Il carcere, nelle cronache, spesso fa rima anche con sovraffollamento, ma anche con morte, perché c’è gente che in carcere muore.
“Il ruolo del cappellano si inserisce nel contesto dell’ambito dell’assistenza al detenuto, quindi con gli agenti di custodia, l’aspetto amministrativo, gli assistenti sociali. Quello che viene chiesto al cappellano è una prossimità e per questo è concessa al cappellano proprio questa possibilità di stare con il detenuto nella cella ordinaria e nelle celle di contenzione. Quindi non c’è un luogo dove il cappellano non possa entrare e questo è un grande privilegio. Naturalmente il carcere è una sorta di morte sociale, tanto che anticamente carcere, ospedale, cimitero erano fuori dal centro abitato. Vivere questa esperienza della morte sociale richiede un accompagnamento. Purtroppo in questi anni abbiamo avuto anche dei suicidi in carcere, segno di una esasperazione non più gestibile che porta proprio alla morte fisica. Ma anche la morte emotiva, la morte morale. Va fortemente sostenuta, cioè dobbiamo lavorare sulla speranza”.
La speranza su cui ha puntato lo stesso Papa proprio dal carcere di Rebibbia. È quello il messaggio da dare anche ai detenuti?.
“Sì, la speranza, con il coraggio, la voglia di rimettersi in piedi, di ricostruire il proprio mondo, di capire gli errori commessi e di non ripeterli più. Non è un atteggiamento naïf che ti fa vedere un mondo ovattato. No, la speranza è un mondo concreto, reale, ed è il tuo mondo. Costruisci qualche cosa che ti possa contenere, ti possa dare soddisfazione. Nella libertà sì, ma anche nel rispetto delle leggi”.