Era il 1939 quando un’appena diciottenne Maria Jottini (13 settembre 1921-16 luglio 2007), insieme al Trio Lescano, vinsero la prima Gara nazionale per gli artisti della canzone indetta dall’Eiar (L'Ente italiano per le audizioni radiofoniche), portando così al successo il brano Maramao perché sei morto scritto da Mario Panzeri. Il paroliere e compositore italiano, durante il regime fascista ebbe non pochi problemi con la censura e, l’allegra canzonetta non fece eccezione. Maramao perché sei morto venne subito considerata dall’opinione pubblica una canzone della ‘fronda’, termine che veniva utilizzato per definire le canzoni apparentemente innocue, spiritose, a volte anche senza senso, che però si prestavano ad un uso antifascista oppure, più in generale, celavano degli attacchi rivolti a figure di potere. Ma oltre a nascondere, forse, una presa in giro di un noto gerarca fascista (Panzeri si dichiarò sempre estraneo alle eventuali implicazioni politiche dei suoi testi) questo brano dal ritornello orecchiabile, che è diventato un classico della canzone italiana, ha radici antiche e profonde.
Il titolo, attraverso l’onomatopea, può trarre in inganno e farci pensare a un simpatico gattone - Maramao - tuttavia la canzone si ispira ad un’antica filastrocca abruzzese intitolata Scura maje o Mara maje che significa ‘amara me’: un significativo cambio di registro. La natura di questo canto popolare, ci appare forse più evidente dalla pellicola di Lina Wertmüller Film d’amore e d’anarchia del 1973, in cui Anna Melato, nei panni di una prostituta, intona l’antica filastrocca la quale, grazie all’arrangiamento di Nino Rota, si presenta più vicina alle sue vesti originali: ovvero quelle del lamento funebre, che descrive in questo caso il senso di abbandono e di dolore di una donna divenuta vedova, che si ritrova costretta ad occuparsi da sola dei figli e della casa.
Il lamento funebre ha origine arcaica, può essere addirittura ricondotto a un periodo storico precedente al cristianesimo e il rituale comprendeva tutta l’area mediterranea. Queste cerimonie magico-religiose, perlopiù radicate in comunità contadine, durante il processo evolutivo del tempo, in alcuni casi hanno conservato il loro carattere pagano e in altri hanno assimilato elementi religiosi del mondo cristiano. È il caso del Sud d’Italia, settore di studio di Ernesto De Martino (Napoli 1908 - Roma 1965) il quale, nel libro Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958), analizza il tema del cordoglio e della crisi spirituale-psicologica (dovuta alla perdita di un proprio caro) che l’uomo deve affrontare durante la vita. Il pianto rituale, che costituisce il lamento funebre, è una cerimonia sociale, un momento catartico che collettivizza un dolore che nasce come individuale. La ritualizzazione del lutto, elemento costitutivo della natura umana, ha lo scopo di controllare il dolore e come sostiene De Martino, il lamento funebre rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo dall’estraniamento, dallo spaesamento e dal delirio causato dalla sofferenza. A tal riguardo è di particolare importanza la figura professionale della prefica. Una figura istituzionalizzata nel passato, che ricopriva un ruolo importante nell’universo folklorico del Meridione italiano. Le prefiche erano delle ‘lamentatrici’, appositamente ingaggiate per piangere durante il rito funebre, si trattava di donne non imparentate con il morto e perciò estranee a un coinvolgimento diretto con la morte. Il loro ruolo era quello di piangere forzatamente ma in modo ponderato, affinché si potesse costituire un’atmosfera ideale per poter permettere di giungere al superamento del fenomeno della morte. Le prefiche pertanto svolgevano il ruolo di mediatrici attraverso la ritualizzazione del pianto: il loro piangere, il loro gettare urla di dolore, il loro percuotersi il petto di fronte al corpo del defunto, erano come una danza, un canto, gesti e parole che venivano tramandati e ripetuti con consapevolezza; il loro ruolo sociale infatti era quello di consapevolizzare chi era stato trafitto dalla disperazione e quello di arginare quella crisi e quel tormento che colpivano la psicologia dell’individuo.
Maria Jottini
Ma cosa ha a che fare il brano di ottant’anni fa, Maramao perché sei morto con questo rituale funebre ben più antico? Il celebre ritornello è stato composto in un periodo di piena etnografia d’urgenza. Durante la prima metà del Novecento infatti, il lavoro di molti antropologi fu caratterizzato da una sorta di pressione sociale, dovuta al timore della scomparsa e dell’oblio di diversi oggetti culturali, come è il caso del rituale del lamento funebre e della figura della prefica. Questa paura generò una grande creatività che vide l’utilizzo del materiale scaturito dalle ricerche etnografiche in diversi ambiti culturali come ad esempio la musica, la letteratura, il cinema, ecc. Perciò l’innocua e allegra Maramao perché sei morto, una canzoncina che tutti almeno una volta abbiamo canticchiato, come del resto molti altri successi di Panzeri, non solo ci ricorda gli espedienti antifascisti adottati in quel periodo per ovviare al monopolio fascista della comunicazione, ma è anche una traccia storica di un fenomeno più profondo e primigenio, ovvero il confronto dell’uomo con la morte.