Letteratura

La letteratura dello svilimento

Premi letterari e altre derive

  • 6 ottobre 2021, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:27
FOTO COPERTINA PREMI.jpg
Di: Marco Alloni

Massimiliano Parente, una delle voci più interessanti del panorama italiano, si è interrogato qualche tempo fa su L’Espresso a proposito del senso che possano ancora avere i premi letterari, rilevando come la stragrande maggioranza degli scrittori viva e lavori in definitiva in funzione di essi: in primo luogo confezionando romanzi che possano risultare idonei a questo o quel riconoscimento, in secondo organizzando la propria esistenza per promuoverne la visibilità. Propensione quest’ultima che rileva quanto tempo apparentemente libero costoro abbiano da sacrificare alla scrittura.

La posizione di Parente, come sempre nel suo caso, è particolarmente severa. Ma indica uno stato di cose che non si può ignorare: laddove la preoccupazione di esserci sopravanza ampiamente quella di essere, laddove l’idea di successo è direttamente proporzionale alla quantità di opere vendute, o di riconoscimenti collezionati, i premi letterari stanno sempre più diventando, al di là del loro valore tradizionale – che li poneva un tempo sullo stesso livello della critica più dirimente – semplici vetrine.

Soprassediamo sulle note pressioni clientelari che caratterizzano le assegnazioni dei premi o sullo spirito di spartizione che le case editrici hanno assunto a principio di ogni nuovo premio. O sul fatto che premi letterari di nobile memoria abbiano visto negli ultimi anni vincitori di caratura sempre più modesta e in qualche caso persino imbarazzante. Soprassediamo anche sul fatto che all’ineffabile Busi o ad Arbasino non sia stato conferito un solo premio di pregio nazionale, né a loro né ad altri innovatori. E dimentichiamo che chi non sia compromesso con l’establishment o sufficientemente introdotto da poter varcare la testuggine dell’omertà editorial-giornalistica non abbia praticamente diritto all’esistenza.

Ma domandiamoci: Che sta succedendo alla letteratura, nello stato di progressiva decadenza a cui è soggetta – soprattutto in paesi dove informazione e cultura svettano agli ultimi posti delle classifiche mondiali – perché la prepotenza pubblicitaria dell’Esserci, la tracotanza commerciale del Mercato, la rabbiosa arroganza del dettato promozionale abbiano travolto l’antico primato dell’Essere, della qualità intrinseca degli autori, per suggerire l’idea che solo l’Apparente e l’Esserci siano infine monete di qualche significato?

La risposta è nella stessa struttura a cui obbediscono tanto le case editrici quanto le menti della maggior parte degli editori, le redazioni giornalistiche non meno di un gran numero di cosiddetti influencer. La desolata risposta è che ormai il capitale, la logica del primato del denaro su ogni altro principio di senso, hanno ormai divorato ogni ambito dell’esistente. E se qualcuno non se n’è accorto si procuri una qualsiasi statistica sull’importanza presunta di questo o quello scrittore: il criterio valoriale è oggi integralmente subordinato al rilievo mercantile. E se il dogma ha le parvenze di una beffa, tale dogma è comunque ormai assunto a luogo comune: se vendi molti libri sei ritenuto un autore di prima grandezza, se vendi poche copie o da editori di nicchia sei ritenuto un autore periferico o addirittura trascurabile.

Opportuno a questo punto fare qualche nome: Baricco e Camilleri, la Ferrante e Gramellini, Saviano e Volo – che hanno venduto milioni di copie e spopolano in televisione sia da visibili che da invisibili, raccogliendo tra l’altro la venerazione di stuoli incalcolabili di cultori dell’ovvio – sono autori che ogni critico non compromesso riterrebbe modesti e molto al di sotto, per intenderci, di un Parente, di un Busi o di un Arbasino. Eppure sono considerati urbi et orbi rappresentativi e persino originali.

Sul piano della letteratura internazionale il discorso non è troppo diverso: Murakami e Follett, per citare solo due romanzieri non particolarmente eccelsi, sono conosciuti anche dai sassi, rientrando per così dire in una sorta di Pantheon degli Irrinunciabili. Mentre un premio Nobel come Mo Yan, autentico gigante del romanzo, non lo conosce quasi nessuno.

Siamo dunque nel periodo più irrimediabile del rapporto tra letteratura e suo svilimento? Con ogni evidenza siamo al collasso di ciò che un tempo significavano premi e critica, consacrazioni dell’Essere e non promozioni dell’Esserci, meriti in sé e non meriti senza merito.

Ti potrebbe interessare