La domanda è negli animi di chiunque, più o meno esplicitamente espressa: cosa abbiamo perduto sulla strada del progresso? E se abbiamo guadagnato qualcosa o molto, quanto abbiamo pregiudicato in questo nostro percorso di sviluppo gli antichi tesori della tradizione e del primitivo?
Un libro capitale per comprendere le modalità di esistenza dell’antico e i modelli di vita sacrificati nei secoli sull’altare della modernità è Il mondo fino a ieri di Jared Diamond, una delle voci più autorevoli nell’odierno scenario della geografia e dell’antropologia allargata (se vogliamo chiamarla così).
In quel formidabile testo, di circa 500 pagine, si ricorda cosa è avvenuto nell’ultimissimo periodo della vita umana e cosa ha portato con sé questo strattone verso la modernità e il progresso. Per milioni di anni – e in particolare per gli ultimi 11’000 anni, di cosiddetta «vita civile» – l’uomo sapiens ha in effetti abitato il globo in forme quasi immutabili, lanciandosi sulla via del cambiamento radicale, dello sviluppo irrefrenabile, solo in tempi recentissimi. Un fenomeno che ci ha resi miopi su ciò che siamo più o meno sempre stati, e che ci ha in qualche misura separato dalle nostre origini e dalla nostra natura fondamentale.
Nuovi sistemi aggregativi, nuove forme di vita consociata, nuove tecniche artigianali, nuovi strumenti di misurazione del tempo e dello spazio, nuovi veicoli e mezzi di trasporto, nuova relazione tra gruppi e Stati nazionali, nuova relazione dinamica con la natura, nuova alimentazione e molte altre «novità», hanno di fatto, in pochissimi secoli, azzerato la nostra eredità di «uomini naturali» per portarci sempre più verso le vette (o gli abissi) dell’innaturale, dell’artificiale e del virtuale. Con la drammatica conseguenza che se abbiamo guadagnato molto in termini di conquiste materiali, abbiamo contemporaneamente dimenticato per strada chi eravamo «fino a ieri». Dunque, insieme ai nostri automatismi di animali pensanti e razionali, abbia smarrito anche quell’antica spiritualità che ci aveva connotati – e in teoria ancora dovrebbe oggi connotarci – nei millenni.
In due capitoli fondamentali, Diamond tesse così il bilancio della sua lunga ricerca chiedendosi a mo’ di chiosa (in particolare al suo lavoro di ricerca in Nuova Guinea): se «la vita tradizionale non è per niente romantica, e il mondo moderno offre a tutti noi enormi vantaggi», cosa nondimeno può essere rimpianto di tale mondo tradizionale? E la risposta, nella sua fitta articolazione, è in qualche modo la summa dell’intero libro: abbiamo imparato che l’ideale non esiste e la verità del bene è sempre nel mezzo, in quella terra di equilibri in cui si riesce, se mai si riesce, a beneficiare in equa misura del passato e del presente, della tradizione e della modernità, dell’antico e del postumano.
Nello specifico l’antico è certamente deposito di insidie, fragilità, pericoli, rischi e precarietà. Ma allo stesso tempo è una risorsa infinita di «umanità» nel senso più cogente della parola. E lo provano questioni come la vita sociale, oggi più che mai esposta alla tragedia dell’alienazione e della depressione («nelle società tradizionali la solitudine non è un problema, poiché si trascorre tutta la vita nei luoghi in cui si è nati o nelle immediate vicinanze, attorniati da famigliari e amici d’infanzia»). Ma anche il livello emotivo che il primitivo garantisce alla vita quotidiana è un elemento da considerare: «In Africa la vita è materialmente povera, ma socialmente ed emotivamente ricca; negli Stati Uniti è l’esatto contrario». E cosa dire della cognizione del tempo, del nostro rapporto con il tempo, con quello dell’hic et nunc e con quello dell’esistenza in sé? «Tra le altre pecche dello stile di vita occidentale, le più frequentemente citate sono l’eterna corsa contro il tempo, i troppi impegni, lo stress e la competitività (...) Qui negli Stati Uniti non dovresti fare altro che lavorare. Se un pomeriggio ti siedi in un bar a sorseggiare con calma un caffé, finisce che ti fanno sentire in colpa perché stai perdendo tempo e non guadagni». E l’elenco potrebbe continuare, ma la conclusione si traccia quasi da sé, con la chiarezza di un assioma: se pretendiamo che il bene sia da una parte sola, indifferentemente che lo si pretenda a favore del presente e del moderno o a favore del passato e del premoderno, finiremo sempre per perdere di vita che l’uomo, o per meglio dire l’umano, è esattamente in questo coacervo contraddittorio, nei cui gangli si gioca il destino universale del mondo e della storia.
Quale «coacervo contraddittorio»? Che l’uomo non è nella distinzione o addirittura nella scissione tra crescita e immobilismo, ma semmai nella loro messa in asse, in equilibrio. I primitivi vivevano mediamente la metà di noi, così come oggi i guineani vivono la metà di un americano. Ma, ma e ancora ma... Poiché 40 dei loro anni, per esempio, potrebbero anche essere umanamente, spiritualmente degni, doppiamente degni di essere vissuti dei nostri 80. Dunque non gridiamo né uno slogan né l’altro, né la decrescita felice né la modernité absolue. Bisogna essere assolutamente equilibrati, questo sì, altrimenti del nostro essere espressione della convivenza tra contrari non verremo mai a capo.