La si potrebbe chiamare sindrome da editing. Si tratta di uno dei fenomeni più complessi degli ultimi decenni. Ma soprattutto di uno dei fenomeni dalla sintomatologia più variegata. Ne siamo affetti o afflitti quasi tutti, a partire dagli scrittori per arrivare a gran parte dei lettori. E temo che una sua cura non sia al momento in commercio.
Partirò dai sintomi, che sono uno degli effetti più interessanti della sindrome. Da qualche tempo non riesco più a osservare la mia libreria senza dividerla idealmente in un prima- e in un dopo-editing. Come per l’avvento di Cristo, non riesco più a non catalogare le opere che campeggiano sugli scaffali se non con le sigle A.E. (ante-editing) e P.E. (post-editing). E tanto sono turbato da questa inedita suddivisione della Storia da non riuscire a capacitarmi come, fino a qualche anno fa, il mondo potesse essere sopravvissuto a prescindere dall’avvento di questa singolare divinità.
Ma la sintomatologia non si esaurisce in tale turbamento. Essendo un fenomeno a suo modo rivoluzionario, la mente avverte d’un tratto l’obbligo di una domanda che non si era mai posta: Ma allora gli scrittori A.E. (ante-editing), i barbari del moderno, come hanno potuto sopravvivere alla propria imperfezione? Una domanda che finisce per declinarsi in un’asserzione ancor più inquietante: Ma allora nella “Montagna incantata” di Mann chissà quanti strafalcioni sono sfuggiti! E subito a ridosso di tale sconcerto, eccone uno persino più disperante: E se allora tutta la letteratura universale, dai tempi di Omero all’avvento di Editing, meritasse una revisione trasversale?
La gravità del sintomo produce effetti molto marcati: invece di limitarsi a una scrollata di spalle ci si precipita infatti subito verso lo scaffale preso di mira e si trae dalla fila dei volumi la Montagna incantata. Lo straniamento è totale: oddio, che trasalimento! In effetti, quanto lavoro, se ai demiurghi di Editing fosse concesso, andrebbe fatto su quel libro! Così prolisso, così puntiglioso, così ottocentesco, così lontano dalla sensibilità dei contemporanei! Per un attimo si è tentati di cedere alla costernazione più implacabile. Intanto la sindrome dell’editing non cessa però di infierire, e tempo pochissimi secondi e ci obbliga a compiere la medesima operazione con Kafka, Tolstoj, Joyce, Pirandello, Verga, Manganelli... tutti autori di quel paganesimo del pensiero che fu la vita prima di Editing.
La disperazione a questo punto è assoluta. Quanta ridondanza, quanti equivoci, quanti aggettivi di troppo, quanta pesantezza, quanta lontananza dalla sensibilità dei contemporanei! Sembra di ritrovare l’etica purgatoriale di Dante: Chi non ha conosciuto Cristo è colpevole a prescindere. La quale etica, mutatis mutandis, verrebbe declinata dalla confraternita degli editors in questi termini: Chi non ha conosciuto Editing non ha incontrato se non parte della Verità.
Tornare alla scrivania in questo stato è realmente complicato. “Ma allora, ma allora, ma allora...” si comincia a delirare, in preda alla sindrome “... tutto andrebbe rivisto, tutto editato, scremato, sfrondato, corretto, aggiustato, abbellito, accorciato, chiarito?” E questa è appunto la fase terminale dell’attacco di editingite, dopodiché subentra una strana quiete.
A mente fredda, infatti, si comincia a ripensare, con l’ausilio di un bicchiere di whisky, all’espressione sensibilità dei contemporanei. E si scopre che non è sostanzialmente altro se non una sorta di eufemismo per definire la mancanza di sensibilità di chi ormai non sa più leggere se non le forme plastificate della letteratura. Allora si avvertono i primi barbagli di guarigione: si prende a caso dal reparto P.E. (post-editing) un romanzo rappresentativo della contemporaneità (diciamo un premiato) e ci si trova pacatamente a osservare: “Com’è pulito, com’è ordinato, com’è scorrevole, com’è comprensibile, com’è semplice... com’è insignificante!” E quasi quasi si avrebbe voglia di sporcarlo con qualche eccesso verbale di Joyce o la cripticità insondabile di Cortàzar, di contaminarlo con gli estremismi barocchi di Gadda o le ellissi di Céline. Allora sì che sarebbe un libro vivente! Ma allora, forse, nel nome e nello spirito dei contemporanei, della loro sensibilità, non lo pubblicherebbe nessuno.