Letteratura

Vivere nella nebbia

Miguel de Unamuno e la fine del “tragico”: la società dei simulacri nell’era della “grande ebetudine”

  • 25 settembre, 18:05
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Di: Mattia Mantovani 

La volgarità, comunque la si voglia intendere e circoscrivere, appare sempre più come la cifra di una società laicizzata e secolarizzata nel senso deteriore del termine, che nel suo insieme e nelle sue linee essenziali ha smarrito il sentimento tragico del vivere e si illude di poter fare a meno della dimensione del sacro in tutte le sue forme e declinazioni. Perché è necessario ricordare che esiste anche una “sacertà” laica, più volte ribadita e sottolineata in particolare da Primo Levi.

L’iniziatore, in termini puramente cronologici, è stato Friedrich Hölderlin, che all’inizio dell’Ottocento ha inaugurato la riflessione sulla fine del “tragico”. Ma la questione di fondo, a ben vedere, è quella posta alcuni decenni dopo da Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore, contenuta ne I fratelli Karamazov: Se Dio non esiste, tutto è permesso. Tolte la sacralità e la sacertà, rimangono i simulacri, il vivere “come se”, più in generale quella che Thomas Mann, in un capitolo de La montagna magica, ha profeticamente definito “la grande ebetudine”, senza tuttavia sapere fino a che punto quel “demone”, «che già da lungo tempo esercitava un considerevole influsso malvagio e folle, e il cui dominio incuteva segreto terrore e pensieri di fuga», sarebbe poi diventato l’autentico mal du siècle.

Il protagonista de La montagna magica, Hans Castorp, lo percepisce e descrive in questi termini: «Vedeva cose assolutamente inquietanti, malvagie, e sapeva quello che vedeva: la vita senza tempo, la vita priva di affanni e aspettative, la vita come depravazione laboriosa e stagnante, la vita morta. Regnava, in quella vita, una grande alacrità, occupazioni di ogni genere si dispiegavano le une accanto alle altre; di tanto in tanto, però, una di esse degenerava in una specie di furia, una moda selvaggia alla quale tutti soggiacevano con fanatico accanimento».

La “grande ebetudine” è precisamente la perdita della dimensione del sacro, l’assolutizzazione del relativo e la relativizzazione dell’assoluto, il venir meno della dimensione verticale dell’esistenza. Comunque ci si ponga nei confronti delle cosiddette “cose ultime” (nei termini della fede oppure del dubbio, dello scetticismo, dell’aperta negazione), è assolutamente necessario ribadire la tragicità e la sacralità/sacertà della vita contro questa devastante deriva. Il fatto che la volgarità e la scomparsa della dimensione del sacro siano diventate quasi una fatalità non significa infatti che le si debba accettare supinamente, come una sorta di destino ineluttabile, o peggio ancora come la chiave d’accesso al migliore dei mondi possibili (bisognerebbe chiedersi, tra l’altro, quale sarebbe questo migliore dei mondi possibili: forse il “mondo nuovo” immaginato da Aldous Huxley?).

Vale quindi la pena, oggi più che mai, di rileggere gli autori che nel corso del Novecento si sono sforzati di ricondurre la percezione dell’esistenza all’interno della sua connotazione originariamente tragica. Uno di questi autori, forse il più diretto e puntuale nelle argomentazioni, è stato Miguel de Unamuno, che al tema del “sentimento tragico” ha dedicato un intero volume.

Il grande narratore, saggista e pensatore spagnolo viene principalmente ricordato per tre opere all’apparenza molto diverse, ma in realtà strettamente unite dal medesimo filo conduttore. L’opera più nota in ambito italofono, anche perché più volte ristampata, è il romanzo Nebbia, originalissimo e per l’epoca molto innovativo, uscito nel 1914 e tutto modulato sulla dialettica autore/personaggio, che Unamuno reinterpreta in chiave religiosa e metafisica.

Si è parlato di Nebbia, non senza validi appigli, come di un’opera “pirandelliana” prima del Pirandello dei Sei personaggi in cerca d’autore (il protagonista, Augusto Pérez, dialoga con l’autore e gli chiede di intervenire sullo svolgimento della trama), oppure di una narrazione “joyciana” prima di Joyce, perché Unamuno fa un ampio utilizzo del “flusso di coscienza”. Ma ci sono anche rimandi a Svevo (il monologo interiore), Kafka e Virginia Woolf, con procedimenti narrativi che diventeranno poi tipici nel romanzo novecentesco.

E’ tutto vero, ma la grandezza di Nebbia ha radici se mai possibile ancora più profonde: in primo luogo, non è un autentico romanzo ma una nivola, un neologismo coniato da Unamuno per indicare un genere letterario che rimanda alla “novella” (novela) sul piano formale e alla “nebbia” (niebla) sul piano del contenuto, di modo che nivola potrebbe essere tradotto pressappoco con “novella nebbiosa” oppure “novella dove tutto è immerso nella nebbia”; in secondo luogo, la “nebbia” evocata nella nivola esprime metaforicamente il dato di fondo della condizione umana, il non sapere, il non capire, l’incertezza e il dubbio.

In uno degli ultimi capitoli, stanco di essere semplicemente un “ente di finzione” partorito dalla fantasia di Unamuno, il protagonista Augusto Pérez chiede di incontrare l’autore per conoscere infine il segreto della propria esistenza. «Caro Augusto», dice Unamuno ad Augusto Pérez, «non sei vivo e neppure morto, perché non esisti». La risposta all’obiezione avanzata da Augusto – «Come, non esisto?» – contiene il nucleo della verità poetica di Unamuno ed esprime una ben precisa idea tragica della realtà e della presenza dell’essere umano nella realtà stessa: «No, non esisti se non come ente di finzione. Povero Augusto, tu non sei nient’altro che un prodotto della mia fantasia e di quella dei miei eventuali lettori, che potrebbero leggere il racconto delle tue finte avventure e sfortune che io ho scritto. Tu non sei altro che un personaggio di romanzo e di nivola, o come vuoi chiamarlo. Ecco, adesso sai il tuo segreto…».

La dimensione teologica e ontologica, che riprende e svolge talune suggestioni tipiche della cultura ispanica, è ben più che evidente: forse la nostra vita è semplicemente un sogno sognato da qualcun altro, un autore, un creatore, un dio, o comunque lo si voglia definire. Si pensi al secondo monologo di Sigismondo ne La vita è sogno di Calderón de la Barca: «Solo sapere vorrei, / per sopportare il tormento, / – e trascuriamo un momento che il nascere ci fa rei – / quale altra colpa avrei / per un castigo di più? / Chi non è nato, quaggiù? / Se tutti gli altri son nati, / quale grazia li ha salvati, / che me ignorò, di lassù?». E’ in un simile dubbio che Unamuno individua la scaturigine del sentimento tragico.

Meno nota rispetto a Nebbia, ma non meno ricca di spunti e implicazioni, è invece la divertente e precisa reinvenzione della Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza nell’omonimo saggio del 1905, dove il “cavaliere dalla triste figura” viene interpretato quale simbolo della condizione nebulosa dell’esistenza e «dell’insaziabile sete di eternità e di infinito» che alberga nell’animo umano, mentre il suo scudiero incarna la ragione laica, che relativizza ma nello stesso tempo – in quanto ragione schiettamente laica – approva la sorgiva tensione verso l’infinito e condivide il sentimento tragico.

Unamuno sintetizza in maniera molto chiara e persuasiva il conflitto dialettico tra il cavaliere e lo scudiero: «Sancho Panza era uomo, un uomo vero e integro, e non era uno stupido, perché solo se lo fosse stato avrebbe creduto, senz’ombra di dubbio, alle follie del suo padrone, che a sua volta non ci credeva fino a quel punto, giacché anch’egli, sebbene pazzo, non era uno stupido. Era piuttosto un disperato, un eroico disperato, l’eroe della disperazione intima e rassegnata, l’eterno modello di ogni uomo la cui anima sia un campo di battaglia tra la ragione e il desiderio immortale».

L’opera più importante, perché spiega le altre due, rimane tuttavia il saggio del 1912 che svela le proprie intenzioni fin dal titolo, Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, dove per “sentimento tragico” bisogna intendere la consapevolezza (la «viva coscienza», secondo le parole di Unamuno) delle antinomie fondamentali che il moderno razionalismo e la tecnologia non sono in grado di risolvere e tendono quindi ad accantonare, lasciando che il vuoto venga riempito dalla volgarità (la “grande ebetudine” descritta ne La montagna magica) intesa quale mancanza del sentimento del sacro e del tragico.

«La coscienza, in quanto tale, è una malattia», osserva Unamuno, che prende le mosse da uno spunto già presente in Dostoevskij e lo svolge in una serie di argomentazioni molto sottili, che ruotano intorno al tema dell’immortalità. L’esigenza dell’eternità e dell’immortalità personale è infatti connaturata nell’essere umano e costituisce la dimensione originaria del sacro. Si tratta però di un contenuto della fede e non della ragione, anche se quest’ultima istituisce le categorie che rendono leggibile e vivibile la realtà. La tragedia, l’angoscia e l’insicurezza dell’esistenza umana trovano la propria origine in questo conflitto, perché senza l’immortalità –postulata dalla fede e messa in dubbio dalla ragione –, la fatalità biologica del nascere vivere e morire non possiede alcun senso. Il sentimento tragico dell’esistenza, secondo Unamuno, si compie e insieme si risolve nell’espressione di un Dio garante dell’immortalità personale. Il che è ovviamente indiscutibile, ma non basta a sciogliere la questione e sanare il conflitto, come sottolinea con molta onestà il credente Unamuno.

Non solo perché la ragione continua a negare ciò che il cuore afferma, ma soprattutto perché né la ragione (con la logica che nega) né il cuore (con la fede che afferma) possono fondare le proprie posizioni sull’assoluta certezza. Rimane quindi l’incertezza quale umanissima manifestazione del sentimento tragico del vivere: «Nel qui ed ora, nel momento che passa e nel minuscolo luogo che occupiamo stanno la nostra eternità e la nostra infinitezza», ha scritto Unamuno, parlando della “folle saggezza” di Don Chisciotte e del suo lasciarsi condurre «lungo la ventura dei sentieri della vita».

L’estremo baluardo contro la volgarità e il nulla imperante consiste allora nell’ascoltare “il sussurro dell’incertezza”. Perché in assenza della «certezza assoluta e totale» rimangono l’“arcano mirabile e spaventoso”, il “silenzio nudo” e la “quiete altissima”, che Unamuno riprende dal Cantico del gallo silvestre dell’amatissimo Leopardi. Ma soprattutto rimane «la domanda che proviene da un’infinità di voci: “Chi può saperlo?”». La risposta di Unamuno, tragicamente umana e umanamente tragica, è forse l’unica possibile. Sicuramente è l’unica che preserva dalla volgarità, permette di vivere anche se avvolti nella “nebbia” e può salvare dalla “grande ebetudine”: «Queste voci sono come il ronzio di una zanzara quando il libeccio mugghia tra gli alberi del bosco. Non ci rendiamo conto di questo ronzio, e tuttavia, nel fragore della bufera, ci giunge all’orecchio. Come potremmo vivere senza questa incertezza?».

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