Il “resto” è silenzio, ha scritto alcuni secoli prima un suo celeberrimo connazionale, ma nel caso di Nick Drake tutto è silenzio, non solo il “resto”, ma anche l’inizio, la fine e tutto quanto sta in mezzo, perché la sua musica è una costante evocazione del silenzio o comunque di una dimensione che si situa oltre la banale e opaca quotidianità dell’esistere. E’ per questo motivo che la sua breve ma intensissima vicenda biografica e artistica è paragonabile a un “viaggio verso le stelle” e la “luna rosa”, sotto i “cieli del nord”: un tramontare per essere ovunque. Come dicono i versi di una delle sue canzoni più belle e profetiche, Fruit Tree: «La vita non è che un ricordo / Accaduto molto tempo fa / Un teatro colmo di tristezza / Per uno spettacolo da tempo dimenticato».
Era nato nel 1948 a Yangon in Birmania, dove in quel periodo il padre lavorava come ingegnere per una ditta di legnami, ma è cresciuto nella campagna inglese, in una zona a sud di Birmingham. E’ passato nella storia della musica con la velocità di una meteora, come un corpo estraneo preveniente da chissà dove, ma ha lasciato un segno indelebile: i tre dischi pubblicati nella sua breve vita, Fives Leaves Left nel 1969, Bryter Layter nel 1970 e il testamento spirituale Pink Moon nel 1972, hanno fissato un “prima” e un “dopo” e stabilito un termine di paragone, perché le sue melodie semplicissime ma sinuose e avvolgenti, tutte costruite su pochi accordi di chitarra e un cantato che a volte non è che un sussurro, una preghiera laica, un’invocazione, hanno costituito e costituiscono tuttora il punto di massima vicinanza tra musica rock e poesia. Dopo di lui, solo Jeff Buckley ha raggiunto quel punto di massima vicinanza, che somiglia davvero a una “goccia pura” di silenzio in un “oceano di rumore”.
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Si è soliti dire, non senza validi appigli, che il disco d’esordio è il più facile, mentre il secondo e il terzo sono i più difficili, ma Nick Drake costituisce un’eccezione alla regola, perché è difficile affermare quale sia il più bello dei tre: Fives Leaves Left è forse il più originale come proposta (non si era sentito pressoché nulla di simile, prima di allora), Bryter Layter è il più completo e musicalmente strutturato, lo scarnificato Pink Moon rasenta la perfezione (o meglio, è la perfezione), ma nel loro insieme rappresentano tre capolavori ineguagliati. Sfiorando il paradosso, si potrebbe perfino aggiungere che dopo aver ascoltato Nick Drake non c’è quasi più bisogno di ascoltare altre parole messe in musica.
Nei suoi solchi, infatti, ci sono il passo, la statura e la tempra dell’autentico “poeta doctus”: le rime sempre ricercatissime, i versi assolutamente perfetti sul piano metrico, il richiamo alla dimensione ancestrale e salvifica della natura che ricorda la migliore letteratura romantica, le strofe appena sussurrate, con la voce che a volte sembra addentrarsi nei meandri nell’inconscio o forse del preconscio, alla ricerca di una nuova e impensata spiritualità, in un costante quanto precario equilibrio tra vita e morte, tra le istanze che fondano l’esistenza ma la irrigidiscono e quelle che la liberano ma insieme la dissolvono. Un’autentica discesa alle Madri, ancora ottocentesca nelle premesse, del tutto novecentesca e perfino postmoderna negli esiti. Poesia pura, ad ogni modo.
E poi i rimandi letterari, a volte evidentissimi, altre volte più celati, ma sempre chiaramente percepibili nel silenzio tra il sussurro delle parole: il romanticismo di Keats, anzitutto, ma anche l’innocenza di Worsdworth, la visionarietà di Blake, il pessimismo realistico di Leopardi, l’amore per le tenebre di Baudelaire e dei maudit, e infine l’apocalisse degli Hollow Men, gli “uomini vuoti” di Eliot, per i quali «il mondo finisce non già con uno schianto, ma con un piagnisteo». Date simili premesse, il frutto dell’albero non poteva durare a lungo.
Il giovane e sensibilissimo Nick ha espresso una simile consapevolezza in tutti i trentuno brani pubblicati in vita. Ma se proprio si volesse scegliere il brano “originario”, che contiene e spiega tutti gli altri, la scelta non potrebbe che cadere su Northern Sky, che è stata giudicata la più bella canzone d’amore della storia della musica inglese. Il che è vero, ma c’è anche dell’altro. Perché nelle parole sussurrate sopra un giro di chitarra, con l’accompagnamento di un organo e alcune note di pianoforte, c’è la verità più profonda di Nick Drake. Non è ovviamente questione di classifiche e graduatorie, ma si può affermare senza troppe esitazioni che si tratta di una delle più belle canzoni di sempre.
«Non mi sono mai sentito così folle e incantato / non ho mai visto lune, conosciuto il significato del mare / non ho mai tenuto l’emozione nel palmo della mano / o sentito brezze delicate sulla cima degli alberi / a illuminare il mio cielo del nord». Non è la sua canzone più triste e senza speranza, perché anzi è un invito a vivere la malinconia e a condividerla, sotto “il cielo del nord” che è ovunque. Eppure nelle sue parole c’è come una sintassi interiore che va a toccare chissà quali precordi, un pudore dei sentimenti che spiazza e per così dire destabilizza. C’è infatti chi dice di non riuscire ad ascoltarla senza che gli occhi si inumidiscano. Difficile non credergli.
Nel settembre 1969, quando esce Five Leaves Left, Nick Drake ha ventun anni e da qualche mese si è stabilito a Londra. Il disco è stupefacente, perché rivela una maturità espressiva e una sicurezza nei propri mezzi del tutto inusuali in un musicista agli esordi. I dieci brani, dall’inziale Time Has Told Me alla conclusiva Saturday Sun, sono altrettanti gioielli di raro splendore, ma ci sono due brani che svettano sugli altri. Il primo è River Man, che può essere considerato il manifesto del pensiero malinconico del giovane Nick.
Un’orchestra d’archi evoca e suggerisce uno sfondo autunnale, fatto di brume sfilacciate ed evanescenti, il cantato sembra provenire da una vicinissima quanto misteriosa lontananza, la chitarra non va oltre gli accenni di un ritmo continuamente spezzato, il tempo è in 5/4 (cosa normale in Drake, rarissima nella musica pop-rock dell’epoca), la sillaba finale di ogni verso viene prolungata fino a diventare un lamento: «Vado a trovare l’uomo del fiume / E gli racconto tutto quello che posso / Sul divieto di sentirsi liberi / Se lui mi dice tutto quello che sa / Su come scorre il suo fiume / Io non credo che faccia per me».
Il secondo brano è Fruit Tree: sembra un’ode malinconica alle vite dei grandi poeti che Drake non ha mai smesso di leggere e meditare, invece è la sua canzone maggiormente autobiografica e tristemente profetica. Ci sono infatti il passato perduto e la costante delusione del presente, perché la cosiddetta realtà effettuale non corrisponde mai alle proiezioni immaginative, ma soprattutto c’è la consapevolezza dell’inutilità delle speranze differite nel futuro. Perché quel futuro non ci sarà. Perché sull’albero sono rimaste solo “cinque foglie”, come dice il titolo del disco.
«La fama non è che un albero da frutto / Davvero parecchio guasto / Non potrà mai fiorire / Finché il fusto è piantato nella terra / Così gli uomini di fama / non trovano mai la strada / Finché il tempo non è volato / Lontano dal giorno della loro morte / Dimenticato finché sei qui / Ricordato per poco / Una rovina molto aggiornata di uno stile assai antiquato». E’ ovviamente impossibile dire fino a che punto si tratti di un presagio o una premonizione. Sicuramente si tratta di una confessione lucidissima e lacerante, che ha pochi paragoni nella storia della musica.
Troppo sofisticato? Troppo avanti rispetto alla sensibilità dell’epoca? Comunque sia, Five Leaves Left passa pressoché inosservato, anche perché il timidissimo Nick fa poco o nulla per promuoverlo con apparizioni televisive, pubblicità e concerti. L’inerzia non cambia con Bryter Layter, che esce nel novembre 1970 e in un anno vende la miseria di quindicimila copie. Si tratta invece di un disco bellissimo, forse meno immediato ma senza dubbio più maturo e musicalmente più ricco rispetto a Fives Leaves Left, e poi contiene alcuni tra gli apici dell’intera produzione di Drake come Poor Boy, la conclusiva Sunday e la già ricordata Northern Sky.
Il “resto”, a quel punto, comincia ad essere sempre più simile al silenzio. Deluso dalle logiche del mercato discografico e dell’industria musicale, amareggiato per la mancanza di un successo che in definitiva non ha mai seriamente perseguito, il ventiduenne Nick comincia un calvario fatto di un sempre maggiore isolamento, visite psichiatriche, assunzione di sostanze stupefacenti e dipendenza dagli antidepressivi. Il percorso in discesa è ormai definitivamente tracciato e non sarà lungo, ma l’ispirazione non lo ha ancora abbandonato. Pink Moon, che esce nel febbraio del 1972, è il canto estremo della rassegnazione, l’ultimo passo prima del baratro, il punto di non ritorno. Poco meno di mezz’ora di musica, undici meravigliose tracce prevalentemente per sola voce e chitarra, testi di una sincerità e profondità raggelante, che esprimono tutta la verità umana e poetica dello sfortunato Nick.
Non c’è un Place To Be, un “posto dove stare”, indietro non si può tornare, oltre c’è soltanto il silenzio. O meglio, oltre c’è la luna rosa, evocata con parole che ricordano consapevolmente l’idiot savant di Wordsworth, in particolare nel monosillabo pink ripetuto cinque volte, come in un balbettio : «L’ho visto scritto e l’ho visto dire / La luna rosa sta per arrivare / E nessuno di voi sarà abbastanza forte / La luna rosa vi prenderà tutti… Rosa, rosa, rosa, rosa, rosa…». E’ come un cerchio che si chiude, ma soprattutto è la fine del viaggio immaginato non più tardi di tre anni prima in The Thoughts Of Mary Jane: «Chi riesce a capire / I pensieri di Mary Jane / Perché vola / O esce sotto la pioggia / Dove è stata / E chi ha visto / Nel suo viaggio verso le stelle».
Dopo aver consegnato i nastri di Pink Moon alla casa discografica, Nick Drake scompare letteralmente nel nulla. Per un po’ di tempo non si sa cosa stia facendo e dove abiti, poi si viene a sapere che è tornato a vivere nella casa di campagna dei genitori, dove passa le giornate a leggere le opere dei grandi romantici e ad ascoltare vecchi vinili di Johann Sebastian Bach. Non suona più la chitarra, non compone musica, non scrive testi, intraprende lunghi viaggi in automobile, è sempre più dipendente da farmaci e droghe, in più occasioni viene ricoverato per collassi nervosi. Il “viaggio verso le stelle” è sostanzialmente già esaurito, ma prosegue altri due lunghissimi anni, fino al 25 novembre 1974, quando la madre lo trova disteso sul letto, privo di vita.
La recensione di Corrado Antonini
RSI Cultura 19.09.2018, 11:07
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E’ un suicidio oppure un errore nel dosaggio degli psicofarmaci? Non si è mai saputo, non si saprà mai, ma in fondo non è nemmeno necessario saperlo. Dopo la morte comincia la leggenda, che si è conservata intatta e si è anzi accresciuta col passare degli anni. Il compianto Massimo Cotto l’ha riassunta perfettamente in un capitolo del libro Decamerock, dedicato alle “vite maledette” della musica: «Con la sua morte è finita una parabola di luce di cui il mondo si è accorto in ritardo. Ora riposa sotto un albero del cimitero di Saint Mary Magdalene, a Tanworth-in-Arden. Sulla sua tomba c’è un suo verso: “Now we rise, and we are everywhere”. Come lui, che è tramontato prima di sorgere, ma che adesso è ovunque». Ma forse ci si potrebbe perfino limitare a un laconico: «Ciao Nick, e grazie per tutte le malinconie… ». Perché il “resto” è davvero silenzio, sotto il “cielo del nord”.