All’inizio non ci sono né il verbo, né l’azione, ma molto più semplicemente la vita, l’opera e le scoperte di un agronomo inglese vissuto tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento. Che è stato un pioniere della moderna agricoltura, ha inventato la prima seminatrice meccanica, ha contribuito alla rivoluzione agricola inglese e infine aveva un nome molto evocativo, Jethro Tull, utilizzato quasi tre secoli dopo (“faute de mieux”, stando almeno alla leggenda) da quattro ragazzi poco più che ventenni (Ian Anderson, Mick Abrahams, Glenn Cornick e Clive Bunker) per quello che sarebbe diventato uno dei gruppi più importanti della storia del rock.
La storia, appunto. Se si dovesse prestare ascolto ai fans duri e puri della primissima ora e quindi non più di primo pelo -per intendersi: coloro che attualmente sono in piena età pensionabile, si svenano per ogni “deluxe edition” dei primi album e non si perdono un solo concerto del fondatore e leader Ian Anderson come solista, oppure col marchio storico del gruppo, nel raggio di almeno cinquecento chilometri- l’autentica discografia dei Jethro Tull si limita a tre o al massimo quattro dischi: l’esordio in chiave jazz-blues di “This Was” nel 1968 (con un suono incentrato sul flauto di Ian Anderson, utilizzato sia in chiave melodica che ritmica, e sulla chitarra di Mick Abrahams, poi sostituito da Martin Barre), la svolta in chiave folk-rock con “Stand Up” e “Benefit” nei due anni successivi e la decisa virata in direzione pop-folk avvenuta nel 1971 con la pubblicazione del celeberrimo e controverso “Aqualung”.
Perché celeberrimo? Perché controverso? Per la sua originalissima sostanza musicale (la base è sempre folk, il rock si arricchisce di venature hard e il pifferaio magico Ian Anderson diventa assoluto protagonista, dettando col flauto non solo ritmo e melodia, ma anche assoli e contrappunti), per la bellissima e iconica copertina che ritrae un clochard -Aqualung, “autorespiratore”, con un rimando al rumore sibilante che il barbone emette ad ogni respiro- dalle fattezze che ricordano lo stesso Anderson, e infine per i testi, in particolare quelli di “My God” e “Hymn 43”, fortemente anticlericali, che hanno creato intorno ad Anderson la leggenda nera del nemico della religione e delle buone e consolidate tradizioni (anche se forse il testo veramente “eversivo” e scandaloso è quello di “Cross-Eyed Mary”, che riprende, variandola, la leggenda di Robin Hood e racconta la storia di una prostituta di Highgate, Maria la strabica, che spilla denaro agli uomini facoltosi per poi distribuirlo ai poveri).
Comunque sia, a dispetto di quanto si ostinano a pensarne i fans della primissima ora, è un lavoro perfetto, sicuramente il più vario, innovativo e insieme il più equilibrato dell’intera storia della band, con brani indimenticabili come la straordinaria “Aqualung” (il cui riff iniziale contende la fama di incipit più celebre della storia del rock alla quasi coeva “Smoke on the Water” dei Deep Purple) e “Locomotive Breath”, che ancora oggi, col suo ritmo sincopato e trascinante, fatto di continui arresti e riprese, rimane giustamente il pezzo forte utilizzato in chiusura delle esibizioni dal vivo, tra le quali è particolarmente piacevole ricordare quella al Festival Jazz di Montreux nel 2003 e due anni dopo all’Estival Jazz di Lugano.
Eppure c’è un nutrito drappello dei suddetti fans della primissima ora che si spinge perfino oltre e propugna l’idea secondo la quale i Jethro Tull sarebbero finiti addirittura nel 1970 con “Benefit” (bellissimo, in effetti, ma troppo lineare e ingiustamente sottovalutato), di modo che tutta la restante discografia, dal periodo prog-rock dei concept-album “Thick as a Brick” e “A Passion Play” in poi, meriterebbe al massimo un ascolto distratto ma più che sufficiente per capire che in fondo, salvo qualche rara eccezione -un paio di dischi tra il 1977 e il 1979, “Songs from the Wood” e “Stormwatch”- non ne valeva la pena, perché il filone aureo si è chiuso all’inizio degli anni Settanta, gli anni Ottanta con le (peraltro veniali) strizzatine d’occhio alle sonorità elettroniche sono da dimenticare e gli anni Novanta, col ritorno alle radici folk e il tentativo di ravvivare gli antichi fasti, sarebbero perfino da derubricare. La pubblicazione di “The Christmas Album”, nel 2003, sancirebbe quindi la fine ufficiale di una storia finita trent’anni prima.
Come tutti i giudizi lapidari, anche questo giudizio sulla produzione dei Jethro Tull contiene una forte dose di esagerazione e un piccolo ma decisivo granello di verità, esattamente come le celebri parole di Thomas Mann, che in un lungo scritto del 1948 dedicato alla genesi del “Doctor Faustus”, con quella falsa modestia che si può perdonare solo ai grandissimi, aveva detto che la sua carriera come scrittore si era sostanzialmente conclusa mezzo secolo prima con la pubblicazione dei “Buddenbrook”: «Forse con quell’opera la mia “missione” si è esaurita, e mi è toccato solo di riempire in modo dignitoso e interessante il resto di una lunga esistenza». Il che, ovviamente, non era vero, però aveva anche un fondo di verità, perché tutte le sue opere successive sono state altrettante variazioni -magnifiche, straordinarie, stilisticamente perfette, ma pur sempre variazioni- sul tema originario dei “Buddenbrook”.
Nel caso dei Jethro Tull, il granello di verità contenuto nell’esagerazione è ravvisabile nel fatto che da “Aqualung” in poi, la discografia di Ian Anderson e soci (questi ultimi in formazione sempre più variabile) è stata un’unica e lunga variazione sullo stesso tema: molto spesso geniale, a volte originalissima, ma pur sempre una variazione. Le ristampe dei primi tre album, che permettono di risalire alle origini della vena aurea, sembrano in effetti dare ragione ai fans della primissima ora, non solo nel caso di “Stand Up” e “Benefit” ma soprattutto dell’esordio di “This Was”, che in poco più di mezzo secolo non ha perso nulla quanto a impatto e suggestione e le cui dieci tracce meriterebbero di entrare tutte in un ideale “best of”, aperto magari dalla sempreverde rilettura della meravigliosa “Serenade To a Cuckoo” di Roland Kirk.
A proposito di “best of” e contrapposizioni tra gli adepti della prima ora e i fans “venuti dopo”, se non altro per mere questioni anagrafiche: la vecchia disputa si è ravvivata alcuni anni fa in occasione della pubblicazione di “50 For 50”, un triplo cd con cinquanta brani per celebrare il mezzo secolo di carriera del gruppo. Ce n’era davvero bisogno? E’ una domanda che in molti si sono posti, soprattutto in considerazione del fatto che da un paio di lustri il glorioso marchio “Jethro Tull” è ormai diventato proprietà esclusiva dell’istrionico e vulcanico Ian Anderson, unico superstite dopo numerosi cambi di formazione, fuoriuscite e separazioni non propriamente consensuali (l’ultima in ordine di tempo, e senza dubbio la più dolorosa, quella dal chitarrista Martin Barre, a parere di molti l’autentico artefice del sound inimitabile della band).
La risposta, ad ogni modo, è molto semplice. Ce n’era bisogno, perché a partire dal 1988 i Jethro Tull hanno sempre marcato con un disco antologico gli anniversari tondi della propria carriera, e quindi è assolutamente logico che rimanga un supporto tangibile anche a ricordo di un traguardo tutt’altro che scontato come il mezzo secolo di vita.
Bisogna poi aggiungere che la scelta dei cinquanta brani (uno per ogni anno, idealmente) è stata effettuata di persona da Ian Anderson e non risponde al classico ma piuttosto prevedibile criterio del “best of”: ci sono, è ovvio e solo per citarne alcune, le immancabili “Aqualung”, “Living In The Past”, “Locomotive Breath” e “Nothing Is “Easy”, che riportano la memoria al periodo aureo, ma ci sono anche molti brani solitamente negletti e trascurati, che risalgono a periodi posteriori e dimostrano che molto ma non tutto è finito coi primi album. Il triplo cd celebra quindi il marchio storico e si rivolge ai più giovani, a chi allora non c’era e forse non sa, oppure non sa a sufficienza. Quanto ai vecchi fans, quelli che c’erano e sanno, non ci sono ovviamente interrogazioni in vista, ma un buon ripasso spalmato su cinquanta brani non fa mai male e può perfino contribuire a smussare taluni giudizi troppo estremi.
Una cosa è comunque certa: anche se qualcuno -prendendo una topica gigantesca- lo ha definito artigiano e non artista del rock, il pifferaio magico Ian Anderson, alla soglia dei settantacinque anni, è ancora sulla cresta dell’onda e ha perfino rispolverato il vecchio marchio nel recentissimo “The Zealot Gene” (“Il gene del fanatismo”), che mezzo secolo dopo riprende e attualizza le riflessioni sul fanatismo e l’oscurantismo presenti in “Aqualung”, con dodici brani costruiti su altrettanti episodi della Bibbia. La voce, ovviamente, non è più quella del poco più che ventenne di “Aqualung”, però lo spirito è lo stesso, il flauto continua a sprigionare magie e i testi sono percorsi da una vena corrosiva e spesso iconoclasta più che mai necessaria, perché da allora tutto è cambiato ma niente è cambiato, Maria la strabica e il vecchio clochard si aggirano sempre tra di noi e sono lo specchio della nostra cattiva coscienza. Il pifferaio magico, che nel lontanissimo 1976 cantava “Too Old to Rock’n’roll, Too Young to Die”, ha felicemente smentito se stesso: si è sempre troppo giovani per morire, ma non si è mai troppo vecchi per il rock’n’roll.