Potrà forse sembrare banale e prevedibile scomodare per l’ennesima volta Dumas père, ma nel caso di Joe Strummer ci si può concedere di utilizzare senza troppe remore l’espressione “vent’anni dopo”. Non solo perché sono trascorsi due decenni dalla prematura scomparsa del leggendario leader dei Clash, morto improvvisamente a 50 anni, il 22 dicembre 2002, per una malformazione cardiaca congenita, ma soprattutto perché questa ricorrenza tonda impone di svolgere alcune riflessioni “vent’anni dopo” e di porre alcune domande.
Cos’è rimasto della memoria di John Graham Mellor alias Joe Strummer (“Joe lo strimpellatore”), della sua musica, della sua visione del mondo? Cos’è cambiato in questi vent’anni che ci separano dalla sua morte? Il messaggio contenuto nella sua memorabile cover di “Redemption Song” di Bob Marley, pubblicata postuma nel disco “Streetcore” e resa celebre da un bellissimo e commovente video (da guardare attentamente, per scoprire alcuni volti noti), dice ancora qualcosa alle nostre coscienze?
La risposta al primo quesito è tutto sommato semplice e perfino incoraggiante. Il tempo fugge inesorabile, ma la musica e il ricordo di Strummer sono ancora molto vivi e non riguardano soltanto il periodo d’oro coi Clash, tra il 1977 e il 1982, quando lo stesso Strummer, insieme a Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon ha riscritto talune coordinate musicali e ha lasciato un segno indelebile, in particolare con dischi come gli epocali “London Calling” e “Sandinista”, che rimangono due pietre miliari della storia del rock.
Dopo il burrascoso scioglimento dei Clash, intorno alla metà degli anni Ottanta, Strummer ha inciso un paio di trascurabili colonne sonore, ha pubblicato nel 1989 un disco piuttosto insipido come “Earthquake Weather”, è apparso in ruoli secondari in alcuni film (“Walker” e “Straight to Hell”), ha accompagnato in tour i Pogues dell’amico Shane MacGowan e infine, all’inizio degli anni Novanta, è sostanzialmente scomparso dalle scene, al termine di un periodo di stasi creativa. “Joe Strummer chi?”: per quasi un decennio, lo si è ricordato semplicemente come leader dei Clash.
Il ritorno alla ribalta sullo scorcio del secolo, accompagnato da un gruppo di giovani musicisti a formazione variabile ma riuniti sotto la denominazione “Mescaleros”, ha rappresentato quindi una grande sorpresa. Il bellissimo “Rock Art & the X-Ray Stile” (1999) e la conferma di “Global a Go-Go” (2001), pubblicati col marchio “Joe Strummer and the Mescaleros”, hanno infatti rinverdito i fasti dei Clash, con uno Strummer quasi cinquantenne ma in grandissima forma e in un incredibile stato di grazia dal punto di vista creativo. Difficile dire se Strummer, con l’avanzare degli anni, sarebbe pian piano scivolato nell’affollatissimo pantheon dei dinosauri del rock. L’unica cosa certa è che le sue ultime incisioni, raccolte un anno dopo la morte in “Streetcore”, un disco di una bellezza pungente e insidiosa, sono di altissimo livello. Oltre alla già ricordata “Redemption Song”, valga come esempio un brano davvero straordinario come “Ramshackle Day Parade”, noto anche col titolo “Fantastic”, un epico quanto dubitoso inno alla vita malgrado tutto, malgrado la vita stessa con tutte le illusioni e disillusioni, con tutti gli inganni autoinganni e disinganni del suo “corteo sgangherato”.
Quella tra il 1999 e il 2002 è stata insomma una seconda vita per Strummer, una continuazione della giovinezza nei Clash ma con una sensibilità più matura, levigata e affinata dal passare del tempo e dalle esperienze accumulate. Lo Strummer dei Clash voleva cambiare il mondo urlando la propria rabbia su toni punk-rock costantemente in maggiore; lo Strummer dei Mescaleros, se non proprio in minore, ha scelto invece di sussurrare verità amarissime, ma anche utopiche speranze, utilizzando su un diverso registro tutte le possibilità offerte dai vari generi musicali. Più in levare che in battere, si potrebbe dire, e del resto lo ha detto lui stesso in una delle sue ultime interviste: «Quando hai vent’anni, pensi che gli altri possano ascoltarti soltanto se urli. Poi capisci che le stesse cose possono essere egualmente ascoltate e percepite anche se le dici a voce più bassa».
Anche la seconda e purtroppo brevissima vita artistica di Strummer ha superato la prova del tempo, come testimoniano le continue ristampe dei tre dischi pubblicati coi Mescaleros e la pubblicazione di due cofanetti antologici di inediti e rarità. Le canzoni più belle di quel periodo, un originalissimo melting-pot di generi e suggestioni, non hanno nulla da invidiare alla media produzione dei Clash e sono rimaste egualmente nella memoria, di modo che si può affermare che nel settantesimo della nascita e a vent’anni dalla morte l’eredità umana e musicale dello “strimpellatore” Joe si è conservata intatta, e si è perfino arricchita di quelle sfumature e screziature che si possono apprezzare soltanto in virtù della distanza cronologica.
E’ molto più complicata, e in ultima analisi piuttosto scivolosa, la risposta alla seconda questione. Cos’è cambiato in questi vent’anni? Cosa ne è stato delle utopie coltivate soprattutto dall’ultimo Strummer, l’ultimo Mescalero che ha davvero nutrito la speranza in una musica “globale” come sintesi e superamento delle differenze, come collante tra le varie culture e le varie espressioni dell’umano? Riascoltare oggi canzoni come “Johnny Appleseed”, “Bhindi Bhagee” (con un testo “gastronomico” assolutamente geniale) e “Shakhtar Donetsk”, contenute in “Global a Go-Go”, oppure la prima e l’ultima traccia di “Rock Art & the X-Ray Style”, il sincero e tutt’altro che ingenuo pacifismo e cosmopolitismo di “Tony Adams” e la struggente “Willesden To Cricklewood”, che chiudeva il disco col racconto in musica di una lunga passeggiata intesa come metafora della vita, fa uno stranissimo e malinconico effetto, al punto che verrebbe quasi la tentazione di lasciare la questione in sospeso, o perfino di non rispondere, per non prodursi nell’ennesimo e rinnovato elenco di utopie fallite e speranze deluse.
Ma una risposta bisogna pur immaginarla, e allora non ci si può che affidare a quello che è stato lo slogan e il credo di tutta una vita dell’ultimo Mescalero Joe Strummer: “The Future Is Unwritten”, “Il futuro non è scritto”. Mai, contro ogni evidenza, da nessuna parte e in nessuna occasione, nemmeno nel lungo ma in realtà brevissimo (e forse irreale, ma in fondo poco importa) tragitto da Willesden a Cricklewood. Si torna a casa, quel che è fatto è fatto, ma in una realtà di morte si è ancora vivi, in un mondo disumano si è ancora umani. Forse, “vent’anni dopo”, è l’unica (l’ultima?) utopia realizzabile: «From Willesden to Cricklewood / Thought about going home / Thought about what's done is done / We're alive and that's the one».