E’ molto vero ciò che diceva il “maestrone” Francesco Guccini nel celebre monologo introduttivo di “Statale 17”, in un leggendario concerto coi Nomadi sul finire degli anni Settanta: gli anglosassoni, quando si tratta di comporre canzoni rock, «ci fregano» con le assonanze e le scansioni sillabiche della lingua inglese, molto più evocativa e maggiormente plasmabile e adattabile della lentissima lingua italiana (con le sue molte sdrucciole e pochissime tronche) alle sequenze di accordi del rock.
E’ altrettanto vero che l’ambiente e il contesto contano moltissimo. Se si vuole fare musica rock, c’è una grande differenza tra il nascere da qualche parte nella brughiera lombarda oppure a Londra, Manchester o Glasgow. Non che nella brughiera lombarda sia impossibile, ma a Londra, Manchester o Glasgow le condizioni (intese anche, molto banalmente, come tradizione) sono più propizie. Ma in ultima analisi la verità vera è un’altra: gli anglosassoni, quando si tratta di rock, «ci fregano» per così dire a prescindere. Loro sono capaci di farlo, noi un po’ meno.
Prendiamo Manchester, ad esempio, e immaginiamo uno scenario. La pioggia, le nebbie, il tipico grigiore di una città post-industriale (la “dirty old town” immortalata nel lontanissimo 1949 in una celebre canzone di Ewan MacColl), i conflitti sociali innescati nei primi anni Ottanta dal thatcherismo, e da ultimo una generazione di ragazzi intorno ai vent’anni, ai quali la vita sembra offrire ben poche opportunità e prospettive. Tra questi ragazzi ne scegliamo quattro, Steven Patrick Morrissey, Johnny Marr, Andy Rourke e Mike Joyce, tutti di origine irlandese, e li riuniamo in una rock-band alla quale diamo il nome “The Smiths”. Ciò che abbiamo ottenuto non è soltanto rock’n’roll, perché gli Smiths non sono stati “soltanto” rock’n’roll.
Non è un caso che l’impatto del gruppo sulla gioventù non solo britannica nel brevissimo arco di tempo compreso tra il 1984 e il 1987, vale a dire tra la pubblicazione del disco d’esordio e il prematuro scioglimento, sia stato paragonato a quello esercitato circa due decenni prima dai Beatles e dai Rolling Stones, e qualche anno prima dai Sex Pistols e i Clash. Lo ha dimostrato anche la carriera da solista intrapresa in seguito dal leader e cantante Morrissey, umorale e fumantino fin che si vuole, ma provvisto di una genialità assoluta. E’ degno di nota, ad esempio, il fatto che pochi anni fa, nel 2011, uno scrittore del rango di Julian Barnes abbia citato il suo secondo singolo come solista, “Everyday Is Like Sunday” dell’ormai lontano 1988, in un passo molto rivelatore del lungo racconto “Il senso di una fine”, facendolo commentare in questo modo all’io narrante: «“Ogni giorno è domenica”… Ricordo di avere riso con sollievo al pensiero che la stessa noia adolescenziale di allora si sia tramandata di generazione in generazione. Quelle parole mi riportarono agli anni della mia stagnazione, a quell’attesa terribile che la vita incominci. Ricordo di aver sorriso. “Ogni giorno è domenica”: non male per un epitaffio, no?». Già, in effetti non è male per un epitaffio, e nemmeno per un lockdown, se è vero che la canzone è tornata in auge nel periodo della chiusura totale, quando effettivamente ogni giorno era domenica e si aveva l’impressione, come dice il ritornello, che tutto fosse «silenzioso e grigio» e l’atmosfera e il mood fossero quelli di «una città costiera» fuori stagione, in una specie di rigor mortis da attesa dell’apocalisse.
Formatisi nel 1982, gli Smiths hanno pubblicato cinque dischi -“The Smiths” e “Hatful Of Hollow” (1984), “Meat Is Murder” (1985), “The Queen Is Dead” (1986), “Strangeways, Here We Come” (1987)- e diciotto singoli. Tutta la loro produzione è stata riunita in cofanetto nel 2011. I loro testi, in traduzione italiana e con la versione originale a fronte, sono stati raccolti nel libro “The Smiths”, curato da Alberto Campo e pubblicato dalle edizioni Arcana.
Che segreto hanno i grandi segreti? Nessuno, molto spesso. In fondo, la ricetta degli Smiths era molto semplice. Il nome scelto dal gruppo (“Smiths”, nei paesi anglosassoni, è più o meno come “Rossi” dalle nostre parti) esprimeva infatti il desiderio di parlare direttamente a tutti quei nessuno -i “lost boys”, i “ragazzi Smiths”- che si dibattevano tra le strettoie dell’adolescenza e le speranze in un futuro che si sarebbe rivelato un’enorme delusione (è una delle poche grandi verità della cultura europea, dall’“enfant du siècle” Alfred De Musset in poi). Nessun particolare segreto, inoltre, anche sul piano delle sonorità, perché gli Smiths (per merito di Johnny Marr, straordinario virtuoso della chitarra e mente musicale del gruppo) affondavano le proprie radici in un preciso passato, riletto però nel segno di una sensibilità molto originale e innovativa. Il loro disco di maggiore successo, “Meat Is Murder”, una variazione in nove tracce sul tema della società come tritacarne e della violenza connaturata a tutte le istituzioni, compie in questo periodo i 35 anni di vita. Non li dimostra affatto, e non solo musicalmente.
E infine i testi di Morrissey, ironicamente disperati e disperatamente ironici, densi di sofisticate citazioni letterarie e rimandi culturali (dall’amatissimo Oscar Wilde al Keats di “La Belle Dame sans Merci”, «alone and palely loitering», dagli “hollow men” di Eliot al “kitchen sink drama” degli anni Sessanta), ma anche capaci di incidere a fondo nella carne viva di una società (non solo inglese) ipocrita e filistea, che già allora era giunta al capolinea: “The Queen Is Dead”, “La regina è morta”, recita non a caso il titolo del loro disco più bello. Cos’è rimasto 35 anni dopo? La “regina” -intesa come quintessenza del vecchiume, simbolo e retaggio del passato- è ancora viva? E noi tutti siamo ancora vivi? «La vita -ha scritto uno dei grandi modelli letterari di Morrissey, la drammaturga e quasi concittadina Shelagh Delaney, “teenage wonder” di Salford e autrice del celebre e controverso “A Taste Of Honey”- ci viene buttata addosso senza niente che assomigli a un “per favore”». E’ piuttosto vero. Ma forse una risposta ancora più convincente l’hanno fornita gli stessi Smiths coi versi finali di “Ask”, una delle loro ultime canzoni: «If it’s not love / then it’s the bomb / that will bring us together», «Se non è l’amore / sarà la bomba / a tenerci uniti». Quanto al genere di “bomba”, ormai c’è solo l’imbarazzo della scelta.