La musica rock ha sempre teso una mano alla follia, ma il più delle volte si è trattato di una falsa adesione, un gesto misurato ancorché plateale, un gioco di sguardi, poco più. I pazzi del rock non sono pazzi. Sono musicisti di rock, ovvero un’anomala comunità di eccentrici sostanzialmente immuni dalla follia vera. Quando la follia vera è entrata nel rock, anche il rock se l’è data a gambe.
Da “The Piper at the Gates of Dawn” a “Ummagumma”, da “Wish you were here” a “The Wall”, la discografia dei Pink Floyd pare attraversata da un solo, inquietante leit-motiv: esorcizzare la follia. La genialità con cui Syd Barrett (nato il 6 gennaio 1946), leader della band agli esordi, riuscì ad evocare la follia nei primi Pink Floyd, si trasformò ben presto per lui in un disagio mentale autentico. Mentre la band mieteva successi nel mondo intero, il nome di Syd Barrett finì consegnato all’abisso dei deviati perenni, quelli che non sarebbero tornati più, immolato sull’altare della psichedelia, per sempre schiavo del sogno cosmico che aveva attraversato la sua mente.
Quel che è certo è che i problemi di Syd Barrett e il suo allontanamento dal gruppo hanno profondamente segnato il destino e la storia dei Pink Floyd. La follia, così incessantemente corteggiata nei primi anni di attività della band, nei dischi successivi ha assunto un aspetto sempre più rassicurante, trasformata in un disordine ormai prevedibile, affidato a un uso maniacale delle macchine e dell’effettistica. Una follia addomesticata, estetizzante, che non mirava più a rappresentare le allucinazioni di una mente fuori equilibrio, quanto piuttosto a cercare una possibile pista di decollo per menti equilibrate, ma inquiete.
In un’intervista di qualche anno fa, ricordando l’amico Richard Wright (lo storico tastierista dei Pink Floyd), Robert Wyatt, già fondatore dei Soft Machine, disse una cosa molto bella e saggia. E cioè che sono state le “armonie boreali” prodotte dalle tastiere di Wright a rendere così riconoscibili i Pink Floyd (non ricordo la citazione esatta, ma il senso è questo). Oscurato, al pari di Nick Mason, dal dualismo Waters/Barrett prima e Waters/Gilmour poi, a Richard Wright va cioè riconosciuto il merito di aver saputo proiettare le intuizioni di Syd Barrett, di Roger Waters e di David Gilmour su un fondale armonico capace di disinnescare la follia senza per questo sottrarla alla nostra percezione. La depennò dall’inquietudine clinica per offrirne una versione più rassicurante. La follia come bene di consumo di massa, come incanto prêt-à-porter, come kit di sopravvivenza per gente sana di mente ma col desiderio di sperimentare, non fosse che lo spazio di un LP, il brivido di un black out della ragione (“The dark side of the moon” vi dice niente?).
I continui richiami al folle Syd Barrett nelle canzoni non più folli dei Pink Floyd, da “Wish you were here” passando per “Brain damage” (The lunatic is in my head), da “If” (If I go insane, please don't put your wires in my brain), fino a “Shine on you crazy diamond” (Now there's a look in your eyes, like black holes in the sky), confermano come il rock abbia ormai imparato a gingillarsi con la follia da una distanza di sicurezza. Raccontare la follia dal di dentro è un rischio troppo grande, persino per il rock. I Pink Floyd hanno inventato una musica che sembra riequilibrare nei sani di mente l’innata propensione di ognuno di noi allo squilibrio mentale. Un surrogato della follia per esorcizzare quella vera, che è sempre in agguato, e ci segue come un’ombra.