Come ogni presunta verità, anche il detto secondo il quale il tempo medica pian piano tutte le ferite non è sempre vero, perché ci sono ferite troppo profonde, che la fuga del tempo contribuisce purtroppo a rendere ancora più dolorose. A due decenni dalla scomparsa di Joe Strummer, morto improvvisamente a soli 50 anni nel dicembre 2002, il leader dei Clash continua infatti a rappresentare una presenza costante nella memoria di chi lo ha amato e apprezzato, col suo idealismo e le sue utopie che sarebbero davvero utili per fronteggiare e arginare i nuovi e inattesi oscurantismi.
Lo stesso discorso vale per i ricordi. Il tempo fugge inesorabile e la memoria rischia fatalmente di sbiadire, soprattutto se gli anni raddoppiano e diventano quaranta, come nel caso della pubblicazione di “Combat Rock”, l’ultimo disco ufficiale dei Clash che uscì nella tarda primavera del 1982, anticipato dal singolo “Know Your Rights” e spinto verso la celebrità mondiale dagli altri due singoli “Rock The Casbah” e “Should I Stay Or Should I Go?”.
L’ultimo scorcio degli anni Settanta fu un periodo molto complicato non solo in Italia e Germania, dilaniate da forti conflitti sociali e dal dilagare del terrorismo, ma anche nell’Inghilterra delle zone industriali e delle grandi periferie urbane, che vennero pesantemente investite dalle riforme economiche e dal darwinismo sociale imposto da Margaret Thatcher. Usciti dal movimento punk -del quale conservarono soltanto la rabbia e l’istinto di ribellione, perché la loro musica si aprì subito a ogni possibile forma di contaminazione- i Clash erano quattro ragazzi di Londra che avevano deciso di inseguire una bellissima utopia: migliorare il mondo con la musica, renderlo uno spazio più vivibile, più umano, o comunque meno disumano. E che tra il 1977 e il 1982, dall’omonimo “The Clash” al già ricordato “Combat Rock”, con in mezzo “Give’em Enough Rope” e gli epocali “London Calling” e “Sandinista”, hanno pubblicato cinque dischi che rimangono nella storia del rock perché per molti versi sono “la” storia, nel senso che l’hanno riscritta e rimodellata, creando un “prima” e un “dopo”. All’epoca furono giustamente definiti “The Only Band That Matters”, “l’unica band che conta”, ma ci sono molti altri modi per definirli: straordinari, inimitabili, senza dubbio ingenui (ma di quell’“ingenuità” ribelle che è il sale e il senso della giovinezza e della “vita prima della vita”, come ricordava Bertolt Brecht), forse anche retorici (però di quella sana e robusta retorica, razionalmente ferma, senza la quale la cosiddetta “vita reale”, comunque la si voglia intendere e declinare, si riduce a un pantano di noia), eppure incredibilmente sinceri, genuini, diretti.
E soprattutto imprescindibili, allora come oggi, nella realtà di un tempo ormai lontano, quasi mitologico, e nell’attuale ricordo che riduce e perfino annulla la lontananza. Perché ovviamente Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon non sono riusciti a rendere il mondo un posto più vivibile, però hanno aiutato un’intera generazione a giudicare il mondo stesso in maniera autonoma, senza obbedire alle parole d’ordine e agli schemi precostituiti. E’ questa la loro eredità, già perfettamente percepibile nel primo singolo del 1977, il leggendario inno punk “White Riot”, nel quale la “rivolta bianca” va intesa come la rivolta che il singolo individuo, per preservare se stesso e la propria verità umana, deve opporre a tutte le intrusioni e coercizioni provenienti dal mondo esterno (“a riot of my own”, “una rivolta personale”, come si ripete nel ritornello).
“White Riot” è per così dire la loro “canzone originaria”, che contiene e spiega tutte quelle che verranno dopo, in particolare le angosce apocalittiche di “London Calling” e il melting pot di “Sandinista” e “Rock The Casbah”, con l’idea della convivenza e commistione tra diverse culture, tenute assieme dal collante della musica come linguaggio universale.
“Combat Rock” segnò l’apice del successo ma anche l’ultima tappa di un percorso musicale talmente intenso e fulmineo da esaurirsi in soli cinque anni, anche a causa dei dissidi tra Strummer e Jones e le forti divergenze sulla rotta da seguire. Il mediocre “Cut The Crap”, uscito nel 1985 dopo l’espulsione di Jones dal gruppo, venne sconfessato dallo stesso Strummer e non è nemmeno menzionato nella discografia ufficiale del gruppo. Resta allora da chiedersi cosa rimanga oggi del “rock da combattimento” che funge da filo conduttore alle dodici tracce del disco. La risposta è semplice: molto, moltissimo, forse tutto. Perché musicalmente il disco non è affatto invecchiato con la sua perfetta mistura di suggestioni funky, hip-hop, reggae e soul innestate su una base tradizionalmente rock, ma in misura non minore perché è ancora valido e vibrante il messaggio che il gruppo ha concretamente lasciato in eredità con le singole tracce: la paura dell’“abbronzatura atomica” evocata in “Atom Tan”, gli orrori della guerra e dell’imperialismo (”Straight To Hell”, “Sean Flynn”), gli inferni metropolitani e le città invivibili cancerose e militarizzate di “Car Jamming”, “Red Angel Dragnet”, “Ghetto Defendant” e “Inoculated City”, la normalità e banalità della morte nella civiltà della comunicazione globale (“Death Is A Star”), l’idea primigenia della “rivolta bianca” e della musica come codice condiviso (“Overpowered by Funk”, “Rock The Casbah” e “Should I Stay or Should I Go?”, che non è una banale canzoncina d’amore, come a suo tempo venne erroneamente interpretata, ma piuttosto un’estrema variazione sul tema della “rivolta bianca” e sulla necessità di definire sé stessi per sottrazione).
Ma è soprattutto l’iniziale “Know Your Rights” a rendere del tutto evidente il motivo per cui i Clash, con il loro “Combat Rock”, erano -e sono- “l’unica band che conta”. Il brano, che rende omaggio al Morricone delle colonne sonore dei film “spaghetti western”, è costruito su un semplicissimo accordo e un ritmo rockabilly molto serrato. E’ su questo tappeto sonoro che la voce di Joe Strummer annuncia un «servizio di pubblica informazione con chitarra» e proclama nelle quattro strofe altrettanti diritti fondamentali: «Hai il diritto di non essere ucciso / L’assassinio è un crimine! / A meno che non sia commesso da un poliziotto o da un aristocratico. / Hai il diritto di procurarti i soldi per mangiare / Naturalmente non importa se ti costano / Un po’ di umiliazione e qualche sospetto / E, se fai gli scongiuri, una pubblica riabilitazione. / Hai il diritto di parlare liberamente / Finché non sarai abbastanza stupido / Da provarci davvero. / Hai il diritto di non rispondere / Sappi che qualsiasi cosa dirai / Potrà essere usata contro di te. / Dai retta a me, scappa!». Come in un cerchio che si chiude, torna l’idea della “rivolta bianca”, la fuga come metafora, scelta esistenziale ed estrema possibilità di salvezza, come unica autentica “rivoluzione” nell’eterno cuore di tenebra del vivere. A proposito di cuore di tenebra: cosa dicevano i versi di quella che rimane forse la loro canzone più bella, “Charlie Don’t Surf”, pubblicata in “Sandinista” e ispirata a “Cuore di tenebra” di Conrad e “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola? «Everybody wants to rule the world / It must be something we get from birth / One truth is we never learn / Satelites will make space burn» («Tutti vogliono dominare il mondo / Dev’essere qualcosa che abbiamo dentro dalla nascita / Ma c’è una verità che non impareremo mai / I satelliti bruceranno l’universo»).
I satelliti bruceranno l’universo. Non sappiamo se Giovanni Arpino, scrittore raffinatissimo di una precedente generazione e per così dire sintonizzato su altre frequenze sonore, avesse mai sentito parlare dei Clash. Probabilmente no. Eppure, se oggi, quattro decenni dopo, dovessimo individuare il motivo per cui vale ancora la pena di ascoltarli e custodirne il ricordo, potremmo senza alcun dubbio rinvenirlo in queste parole che lo stesso Arpino pronunciò nel 1987, pochi mesi prima di morire e cinque anni dopo lo scioglimento dell’“unica band che conta”: «Dobbiamo aggrapparci alle idee. Non importa che siano antiche e consunte. Non importa se lanciano ombre platoniche o barcollano attraverso il caos e le necessità biologiche. Ma la conservazione delle idee è davvero l’ultimo approdo. Bisogna nutrire pensieri ampi, assoluti, superbamente inutili rispetto alla nostra realtà così putrida. Che in caso contrario finirà col masticarci nelle sue puzzolenti ganasce».