Musica

The The

Il lungo inverno del nostro scontento

  • 09.02.2022, 10:31
  • 14.09.2023, 09:19
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Di: Mattia Mantovani 

E’ possibile tornare alla ribalta dopo tanto tempo senza destare il sospetto che si voglia semplicemente monetizzare la gloria passata e soprattutto senza scivolare sul ghiaccio sottile dell’anacronismo? Sono domande che senza dubbio nel 2017 si è posto anche Matt Johnson nel momento in cui, dopo un ventennio circa di quasi assoluto silenzio, ha deciso di dare nuova linfa alla sua creatura musicale, un fantomatico gruppo (composto in realtà dal solo Johnson e da strumentisti ingaggiati di volta in volta) che risponde al non meno fantomatico e provocatorio nome di The The, che è come dire “I i” oppure “Gli gli”, cioè un totale e voluto nonsenso e più ancora una sfida allo show business, dove tutto deve avere un nome e una definizione adattabile a un canone e inseribile in un contesto.

E che Matt Johnson alias The The non fosse adattabile ad alcun canone lo si è capito fin dall’inizio, nell’ormai archeologico 1983, quando due brani tratti dal primo album ufficiale, “Soul Mining”, invasero l’airplay radiofonico britannico (con un certo scandalo dei benpensanti) e approdarono anche alle nostre latitudini. I due brani, che ancora oggi vengono considerati quanto di più originale prodotto dal rock inglese di quel periodo, si intitolavano “This Is the Day” (poi ripresa in tempi recenti dai Manic Street Preachers) e “Uncertain Smile”.

Nessuna nostalgia, quindi, e men che meno nessuna patetica e affannosa ricerca del proustiano “temps perdu”. Matt Johnson ha varcato nel frattempo la soglia dei sessant’anni, non ha nulla da monetizzare (la rinascita non ha richiamato le folle e non è un’iniziativa delle multinazionali della musica) e non corre alcun rischio di anacronismi, perché i quasi vent’anni di silenzio e assenza dalle scene sono dovuti a una matura riflessione sulla necessità di esporsi in prima persona e sul senso del fare musica, un certo tipo di musica, in un mondo nel quale la fruizione della musica stessa (e più in generale del prodotto artistico) ha assunto nuove (e peggiorative) connotazioni. C’è chi si espone sempre e comunque, per il gusto e la vanità di esporsi, c’è chi continua a fare e produrre per un non meglio definibile istinto che assomiglia molto allo “horror vacui”, e infine c’è chi preferisce tacere, se ritiene di non avere nulla di interessante da dire. In un mondo di logorroici presenzialisti e iperproduttivi, è anche da questi particolari che si riconosce il talento. E Matt Johnson è dotato di molto talento, se è vero -come è vero- che il talento stesso si definisce per sottrazione e non per addizione. In fondo, cosa diceva il suo connazionale Shakespeare in un celebre passo del “Cimbelino”? «Let’s meet the time as it seeks us», «Andiamo incontro al tempo come esso ci cerca». Soprattutto, si può forse aggiungere, se davvero il tempo ci cerca, e se ha bisogno di noi. Il che è tutt’altro che ovvio e scontato.


«Altri tempi, altri sogni», per dirlo con un altro grandissimo della letteratura come Puskin. Negli anni Ottanta, infatti, mentre la Gran Bretagna era stretta nella tagliola del thatcherismo e di una disumana legge della giungla venduta e spacciata come neoliberismo, il londinese Johnson (originario di Stratford, East-London, la precisazione è fondamentale) era tra coloro che credevano nella musica come strumento di comunicazione e possibile lettura alternativa dell’esistente.

I dischi pubblicati come The The, da “Soul Mining” del 1983 a “NakedSelf” del 2000 passando per “Infected” del 1986, “Mind Bomb” del 1989, “Dusk” del 1993 e l’omaggio a un grande “antenato” come Hank Williams in “Hanky Panky” del 1995 (tutti imprescindibili, senza alcuna eccezione), si presentano da questo punto di vista come una specie di storia parallela, sia sul piano musicale, per le atmosfere notturne e quella mistura perfettamente orchestrata di rock, pop, folk, soul, blues e funk che è sempre stata la sua cifra stilistica e lo ha tenuto al riparo dai canti di sirena del mainstream, sia su quello dei testi -supportati da una scrittura densa e incisiva, di alta qualità letteraria e di adamantina purezza- con la loro fitta trama di storie di alienazione urbana, solitudini, timori e tremori, derive della mente e del cuore, depressione e degrado morale in una società (inglese, ma non solo) alla totale quanto (in)consapevole deriva.

Nell’insieme, se si volesse racchiudere il tutto in una specie di slogan, si potrebbe dire che è la storia delle “grandi speranze” (il richiamo a Dickens non è casuale) mandate al macero, oppure la storia della beat generation che è diventata la “beat(en)” generation, la generazione sconfitta (e qui il pensiero corre inevitabilmente a “La mia generazione ha perso” di Giorgio Gaber). E’ un gioco di parole, ma è anche il titolo di un brano del 1989 contenuto in “Mind Bomb”. Profetico e perfino visionario all’epoca, attualissimo oggi, soprattutto nei versi che parlano di una vita che è diventata quella che è a causa di «una dieta fatta di pregiudizi e disinformazione»: «Adoriamo pure i templi di Mammona / Perdiamoci pure nelle prigioni delle religioni / Non troveremo più la felicità / Perché non c’è più la strada per raggiungerla». Eccolo nella versione originale e in una versione del 2018 dal vivo in concerto alla Royal Albert Hall di Londra, disponibile anche in un DVD dal titolo “The Comeback Special”:

Altri tempi, altri sogni, nel “Regno della pioggia”, come dice il titolo di un brano dello stesso periodo, cantato in coppia con una giovanissima e allora semisconosciuta Sinéad O’Connor (“Nothing Compares 2 U” sarebbe uscita l’anno dopo). Ma anche vecchi incubi, nel lungo inverno del nostro scontento (per citare, neanche troppo liberamente, il titolo di un romanzo di John Steinbeck). Nella bellissima “Heartland” del 1986, che rimane uno dei suoi brani più rappresentativi e per molti versi un pezzo davvero epocale, Johnson ha raccontato con pochi ma chirurgici tratti di pennello il lato oscuro dei tutt’altro che magnifici anni Ottanta, la cui ombra si proietta sempre più minacciosa sul nostro presente. Un viaggiatore arriva a Londra, percorre “i ponti di ferro”, “attraversa i parchi vittoriani”, osserva la gente infreddolita che “corre a casa prima che cali l’oscurità”, oltrepassa le rovine di vecchi cinematografi e vede spuntare dappertutto centri commerciali, nuovi templi del benessere e del consumismo. Sembrerebbe un moderno paradiso, e invece è l’ultimo (o penultimo) stadio di pervertimento del darwinismo sociale e di quello che Hermann Hesse aveva definito l’inferno climatizzato della civiltà: «Questo è il paese dove nulla cambia / Il paese dei bus rossi e dei pargoli dal sangue blu / Il paese dove i pensionati vengono rapinati / E le anime vengono lacerate dal welfare state / Dove i poveri bevono latte e i ricchi mangiano miele / Dove gli sconfitti si contano le ferite mentre altri contano il denaro». Nell’Occidente delle anime sazie, consumismo, conformismo e pensiero unico danno l’illusione di una realtà diversa dalla realtà reale, ma il prezzo da pagare è altissimo: «No, non è scritto sui giornali / Però è scritto sui muri / Le macchie sul cuore di questo paese / Questo paese malato, triste e confuso / Non possono venire rimosse». La vita nelle nuove lande desolate di un malinteso welfare state e della società dei consumi diventa quindi un «inverno fatto / di lunghe ombre e grandi speranze / in attesa dell’utopia / in attesa che l’inferno si raffreddi».

E’ la medesima attesa, molto beckettiana, di “This Is the Day” e “Uncertain Smile”: l’attesa, vissuta con un “sorriso incerto” sulle labbra, che qualcosa possa infine cambiare, e che “questo sia il giorno”. Ma nel frattempo, come dice uno degli ultimi brani pubblicati prima del lungo silenzio, “Global Eyes”, l’utopia ha subito un ulteriore differimento e l’inverno sembra davvero senza fine, perché si è imposto un nuovo e condiviso ordine del giorno: «Globalizzare / Ipnotizzare / Omogenizzare / Chiudere gli occhi / Non criticare / La forza del mercato è il nuovo dittatore / il manipolatore e l’annientatore / La verità è nascosta nella piena luce del giorno». Non deve quindi stupire che nel 2018, quando è tornato a esibirsi dal vivo prima che la pandemia imponesse un nuovo stop, Matt Johnson l’abbia scelto come brano di apertura dei concerti. Così come non deve stupire che il brano di chiusura fosse “Lonely Planet”, del 1993, riflessione molto pessimistica (e di conseguenza molto realistica) su un “pianeta solitario” sempre più alla deriva negli spazi vuoti dell’universo. Nelle esibizioni dal vivo ha presentato anche un nuovo brano, scritto nel 2017 e utilizzato nella colonna sonora del docu-film autobiografico “The Inertia Variations”, che ascoltato oggi ha un titolo a dir poco divinatorio: “We Can’t Stop What’s Coming”, “Non possiamo fermare ciò che succederà”. Che è una grande verità, forse l’unica verità vera del “breve tempo di nostra vita mortale”, come dicevano gli antichi cronisti e un tale Giacomo Leopardi, che ne aveva una certa esperienza. Il resto, più che il “silenzio” di Pascal o di Shakespeare, non è altro (e banalmente) che uno “Slow Emotion Replay” (altro grandissimo e profetico brano, datato 1993) e la fredda e raggelante cronaca, nel lungo inverno del nostro scontento.

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