Tra i più grandi musicisti tedeschi, secondo il campione statistico usato dal programma della ZDF “Unsere Besten”, ci sono Herbert Grönemeyer, Peter Maffay, Nena e Sarah Connor. Se non siete tedeschi e ne avete sentito nominare anche uno solo, consideratevi pure merce rara: gli appassionati dello Schlager o del country germanico, al di sotto del lago di Costanza, non sono moltissimi. È invece molto probabile che abbiate sentito nominare i Kraftwerk, come giustamente nota David Buckley nel primo capitolo della sua fondamentale biografia della band di Düsseldorf: «il più importante prodotto da esportazione della cultura tedesca degli ultimi 50 anni».
Ok, i risultati dei sondaggi di “Unsere Besten” non erano probabilmente i più affidabili sulla piazza, anche considerando il catalogo di manipolazioni messe in atto da trasmissioni del genere nel corso degli anni, ma è indubbio che i Kraftwerk non siano stati profeti in patria. A dirla tutta, non lo sono stati proprio, non hanno voluto esserlo. Aiutati dal fatto che la parte più importante della loro carriera si è svolta nel secolo scorso – che rendeva ancora possibile nascondersi a chi desiderasse farlo, ma soprattutto non imponeva a chiunque il narcisismo digitale – i Kraftwerk sono scomparsi dietro la loro musica elettronica e la loro immagine di uomini-macchina: poche apparizioni pubbliche al di fuori dei concerti, rare interviste, solo immagini prodotte dal loro entourage. Controllare la narrazione mediatica, si direbbe oggi.
Ma, dicevamo, se chiedete all’ascoltatore medio tedesco cosa sa dei Kraftwerk, è probabile che citi due titoli, solo quelli: “Das Model” e “Autobahn”. Se il primo rappresenta la maturità commerciale del gruppo, il secondo è il trampolino di lancio, ma soprattutto il carburante che sarebbe finito nel motore di una nuova era musicale, quella dell’elettronica.
Oggi, il panorama musicale globale è dominato dai suoni elettronici, e molti hanno iniziato a chiedersi se siano proprio i Kraftwerk il gruppo più importante del secolo – più dei Beatles. Se a chiederselo sono gli inglesi sulla BBC, bè, la domanda dev’essere davvero lecita. E se la risposta fosse positiva, allora “Autobahn” potrebbe diventare il disco più importante del secolo, uno dei pochi capaci di teletrasportare gli ascoltatori nel futuro. Forse la famosa frase di Michael J. Fox nei panni di Marty McFly, «Penso che ancora non siate pronti per questa musica… ma ai vostri figli piacerà» sarebbe stata più precisa se, sul palco del ballo della scuola, Marty avesse imbracciato un sintetizzatore, invece di una chitarra. O forse è solo che il futuro visto dai Kraftwerk era, semplicemente, più lontano di quello raggiungibile con una DeLorean. Che poi, a quella, le autostrade non servivano, ma questa è un’altra storia.
“Autobahn” è il quarto album dei Kraftwerk, composto e suonato tra 1973 e 1974, pubblicato finalmente il primo novembre 1974. Però, nel canone messo insieme dalla stessa band con la pubblicazione della raccolta “Der Katalog” nel 2009, è il primo. Non è un caso: con “Autobahn” inizia il ciclo di sette anni e cinque dischi con cui i Kraftwerk avrebbero cambiato la storia della musica. Eppure, nonostante la sua portata rivoluzionaria, “Autobahn” era anche figlio dei suoi tempi, in un certo senso.
Ad esempio, la title track occupava un intero lato del vinile, lasciando sul secondo una sequenza di pezzi più brevi: una suddivisione tipica del prog rock, che possiamo ritrovare in classici come “Close to the Edge” degli Yes, “Lizard” dei King Crimson, “Thick as a Brick” dei Jethro Tull o “Phaedra” dei Tangerine Dream (per citare almeno un esponente del kraut rock). Eppure, “Autobahn” suonava lontanissima dal calore del prog-rock, con la sua pulsazione meccanica – non a caso già soprannominato Motorik-beat da Can e Neu! – e il suono completamente elettronico.
Oppure c’era il fatto che la melodia fosse incredibilmente simile ad alcune composizioni di Brian Wilson, tanto che per molti “Autobahn” altro non era che una variazione sul tema di “Barbara Ann”. Florian Schneider era del resto un fan dichiarato dei Beach Boys (così come Ralf Hütter lo era dei Doors). Eppure, la distanza tra i due stili musicali era chiara sin dal primo ascolto, nonostante entrambe le melodie condividessero una certa idea di infantile purezza (nel caso di “Autobahn”, anche il testo opera del pittore Emil Schult era poco più che una filastrocca per bambini), e nonostante il fatto che gli stessi Beach Boys fossero autori di classiche road songs americane come “Little Deuce Coupe” e “I Get Around”, che celebravano la cultura giovanile dei primi Sessanta, in cui le auto giocavano un ruolo fondamentale. Il fatto che, in Europa, la tradizione delle road song venisse ripresa (e radicalmente innovata) da un gruppo di ragazzi tedeschi, che portavano nel loro DNA culturale l’orgoglio per le macchine mobili e (soprattutto, in questo caso) le infrastrutture che le contenevano, era un segno del destino.
Per i Kraftwerk, la Volkswagen sulla copertina dell’edizione tedesca di “Autobahn” era un simbolo di libertà, così come i sintetizzatori che permettevano loro di creare musica diversa da quella sentita prima. Peraltro, molti biografi concordano nel notare che strumenti musicali all’avanguardia e motori erano in qualche modo in competizione, per i membri della band: un’auto era assolutamente fondamentale per spostarsi e suonare in giro, certo, ma i sintetizzatori costavano tanto quanto una vettura di buon livello, ed erano altrettanto necessari. Per fortuna, e soprattutto nel caso di Florian Schneider, i membri dei Kraftwerk potevano contare su situazioni socioeconomiche tutt’altro che disperate, e per la realizzazione di “Autobahn” riuscirono a procurarsi strumenti all’avanguardia della tecnica come il Minimoog, l’Odyssey della principale concorrente statunitense ARP, e il Synthi AKS prodotto dalla londinese Electronic Music Studios. I loro suoni si ritrovavano nei quasi 23 minuti di “Autobahn”: una canzone che parlava di macchine, prodotta con altre macchine e dalla durata determinata da un limite meccanico, vale a dire la quantità di musica che era effettivamente possibile incidere sul lato di un vinile. Eppure il pezzo riusciva a toccare corde umane profonde, e a trasmettere una sensazione di nostalgia istantanea che lo accomunava una volta di più alle composizioni tanto apparentemente allegre quanto profondamente malinconiche del già citato Brian Wilson.
Tuttavia, tanto per continuare a ragionare per opposizioni e contraddizioni, “Autobahn” segna la distanza proprio con la tradizione anglosassone dei Sessanta/Settanta – oltre che una cesura definitiva, che porterà prima il rock a ibridarsi con i suoni elettronici, e poi, un quarto di secolo dopo, a essere definitivamente soppiantato da questi ultimi. Una differenza rappresentata esteticamente dal cambio di stile di Ralf, Florian e compagni, che accorciarono i capelli e adottarono grisaglie da ufficio, appena un po’ più eleganti della media impiegatizia, però sempre ordinati e perfetti: si trattava chiaramente di un riferimento ironico allo stereotipo del tedesco efficiente, rigoroso e mai sopra le righe, molto diffuso fuori dai confini della Germania. Giocare su quel luogo comune era un ottimo modo per presentarsi all’estero, senza sembra un’imitazione di ciò che all’estero c’era già. Infatti, funzionò molto bene, nonostante la novità rappresentata dai Kraftwerk suscitasse sempre un’iniziale diffidenza.
Quando i Kraftwerk si imbarcarono nel loro tour inglese, dopo il primo successo di “Autobahn”, furono accompagnati da una stampa tutt’altro che entusiasta: il seguitissimo “Melody Maker” scrisse che era musica «senza spina dorsale, senza emozioni, senza varietà e con poco gusto», chiudendo la recensione con l’esortazione a «tenere i robot fuori dalla musica». Ma il pubblico si dimostrò interessato a quella proposta d’avanguardia: quarto posto in Gran Bretagna, quinto nelle classifiche americane, inevitabilmente meglio che in quelle tedesche (e nella Schweizer Hitparade, dove erano tristemente settantasettesimi, per inciso), che quell’anno preferivano inevitabilmente Carl Douglas e gli abba. Il viaggio di “Autobahn”, oggi possiamo dirlo, è durato infinitamente di più di quello da Colonia a Bonn che l’ha ispirato.