L’INTERVISTA

“Così sono diventato un musicista sufi”

Parla Kudsi Erguner, maestro del flauto, direttore d’orchestra e compositore

  • 21 gennaio, 12:23
  • 21 gennaio, 12:25
Kudsi Erguner

Kudsi Erguner

  • Courtesy: Kudsi Erguner © Edoardo Genova+
Di: Christian Gilardi/Red. 

La musica ottomana è un oceano di suoni diversificati in cui a volte si possono ritrovare caratterizzazioni specifiche, ma è soprattutto una pratica musicale imbevuta da secoli di incontri, scontri, influenze incrociate. Espressione di un impero situato in un luogo cruciale del pianeta. Per i transiti di persone e delle merci. Erroneamente viene anche indicata come musica classica turca, ma invece è la musica classica di molte genti che hanno condiviso una storia comune, quella dell’Impero Ottomano. E, quindi, una musica che non è l’espressione di un’appartenenza nazionale, bensì è una cultura comune a molti popoli ed etnie, esattamente come la musica classica europea.

All’interno di questo mondo sonoro affascinante, “Grand Bazar”, il programma radiofonico di RSI che viaggia alla scoperta di gioielli d’invenzione sonora realizzati nelle diverse tradizioni musicali, ha incontrato nel suo appartamento di Parigi Kudsi Erguner (qui sotto la trascrizione di uno stralcio dell’intervista).

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Un sufi d’Istanbul

Grand Bazaar 11.01.2024, 15:35

  • Courtesy: Kudsi Erguner © Edoardo Genova+

Maestro del flauto, direttore d’orchestra e compositore, Kudsi Erguner è senza dubbio un uomo chiave e un nocchiero, indispensabile per chiunque voglia affrontare un viaggio diretto nel mare magnum della musica ottomana.

Kudsi Erguner è un grande interprete del ney, il lungo flauto di canna usato dai musicisti sufi. Nella sua carriera ha esplorato vari aspetti della musica ottomana, alternandoli a progetti inediti che lo hanno portato ad addentrarsi in nuovi territori musicali, a dialogare con solisti di altre culture musicali, oppure collaborando con esponenti di altre arti quali Peter Brook, Bob Wilson, Carolyn Carlson, Maurice Béjart, Peter Gabriel.

Maestro, la sua famiglia ha una storia musicale importante. Suo padre e suo nonno erano musicisti famosi e anche lei ha scelto di diventare un musicista. Può raccontarci il suo primo incontro con la musica e come ha iniziato a suonare?

“Non posso individuare un momento con precisione perché la musica era sempre presente a casa. Inoltre, quando ero bambino in Turchia, non c’erano molti spazi riservati alla musica cosiddetta ottomana o turca. Quindi le persone aprivano le loro case una volta alla settimana a tutti i musicisti e a chiunque altro per suonare. Non era un approccio didattico, era un ambiente in cui i giovani incontravano i maestri ed ascoltavano la loro musica. Era uno scambio. La casa di mio nonno era uno di questi luoghi. Ogni martedì si teneva una riunione alla quale partecipavano, in estate e in inverno, tutti i musicisti che potevano venire. C’erano anche gli abitanti del quartiere che ascoltavano la musica all’esterno della casa. Quindi io sono cresciuto in questo ambiente. C’erano anche altri incontri in altri luoghi, come nell’unica tek, il luogo di incontro dei dervisci, che rimaneva nonostante il divieto di questo tipo di riunioni. Ci andavamo tutte le domeniche, ma ci si riuniva anche altrove durante la settimana. Poi, crescendo, ho cominciato a partecipare a dei circoli dilettanteschi. Non c’erano conservatori. I giovani appassionati di musica si riunivano tra loro. C’era l’ensemble di giovani studenti universitari, per esempio. C’era un’altra associazione, nel quartiere di chitarre, l’Associazione degli appassionati di musica classica ottomana. Ho cominciato a partecipare alle loro attività già a 14-15 anni perché organizzavano dei concerti mensili. Preparavamo dei concerti. Si trattava di un’attività molto intensa. Se torniamo all’idea della tradizione familiare, geneticamente c’è una certa continuità. Anche se non sono diventato un suonatore di ney perché lo era mio padre, ma perché mi piaceva. Quando ero giovane questo genere musicale non veniva incoraggiato, la Turchia guardava all’Occidente. Si pagavano somme enormi affinché i giovani andassero a Parigi o a Berlino a studiare la musica occidentale e la concertazione, eccetera. Mentre la musica che mi interessava era vietata. Se non avessi avuto i miei genitori, non avrei mai scoperto questa musica, come d’altronde molte persone della mia generazione. Parlo dei miei genitori, perché è grazie a loro che ho scoperto questo genere musicale e non soltanto perché sono orgoglioso del fatto che sono grandi musicisti. Era anche l’unica occasione per uno della mia generazione di scoprire questa musica. La prova è che oggi, in Turchia della mia generazione - ho più di 70 anni - siamo solo due suonatori di ney. A partire dal 1980 vi è stato un cambiamento nella politica culturale turca. E oggi soltanto a Istanbul ci sono oltre un centinaio di scuole di ney. Ci sono suonatori di ney ovunque, e questo è positivo. Ma è diventata un’industria. Ci sono fabbricanti di ney, venditori di ney eccetera. Fino al 1976, in Turchia, l’insegnamento della musica dei Makan della musica tradizionale era vietata negli istituti statali. Quindi la creazione di un conservatorio di Stato nel 1976 è piuttosto recente. Per questo motivo, essere il discendente di una famiglia di musicisti per me è importante”.

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Un sufi d’Istanbul

Grand Bazaar 18.01.2024, 15:34

  • Courtesy: Kudsi Erguner © Edoardo Genova+

Il ney, lo strumento che lei suona, è uno strumento particolare nella storia della musica ottomana, che simboleggia l’anima del divino. Lei stesso proviene da una grande stirpe di musicisti di tradizione sufi. Come ha imparato la musica d’arte ottomana?

“Anzitutto desidero dire due parole a proposito del ney. Si dice che sia uno strumento turco, iraniano, arabo. Sono tutte chiacchiere. La musica non appartiene a nessuna nazione. La musica piace o non piace. Ma se guardiamo alla storia vediamo che al Museo del Louvre c’è un bassorilievo egiziano di 4-5’000 anni avanti Cristo, che raffigura chiaramente un suonatore di ney. È uno strumento, un tubo di canna molto semplice. La sua semplicità è la ragione per cui è stato scoperto così presto dagli esseri umani. È uno strumento che si trova in tutto il Mediterraneo, in Egitto, in Mesopotamia, nella Persia dei Sasanidi. Lo si considera primitivo, ma di per sé è sofisticato, perché la musica antica è raffinata. Quindi perché il ney e il suo legame con l’universo, chiamato tra virgolette sufi? Perché ci fu un maestro sufi chiamato Gialal al-Din Rumi, una fonte inesauribile di poesia che scrisse dei poemi raccolti nel Masnavi. Sono 26’000 distici, 56’000 versi. È sicuramente una raccolta enorme e tutti i versi iniziano così. Ascolta il ney che ha una storia da raccontarti. Il ney parla, lamenta una separazione. Tutto il pensiero sufi si basa su questo, La separazione, il lamento per una separazione, i motivi di una separazione, eccetera”.

Come si trasmette l’arte della musica ottomana?

“Molti europei credono che in Oriente la trasmissione della musica sia orale, che non ci sia nulla di scritto. È un errore. Ci sono numerosi scritti sulla musica e sulla teoria musicale. Ci sono una letteratura molto ricca e una bibliografia immensa. D’altronde è grazie al mondo arabo e turco che abbiamo scoperto Pitagora, Aristotele. Abbiamo riscoperto i filosofi greci grazie agli arabi, non agli europei. Esiste una letteratura musicale orientale. Ma per quanto riguarda il legame tra musica e partitura, non si tratta di suonare leggendo qualcosa di scritto, perché in questo modo la musica non vive. È necessario memorizzarla per poter interpretarla in modo molto personale. Nel caso contrario la si dimentica. Nei miei lavori cerco di infrangere questo sistema perché a partire dal XX secolo è emersa una specie di classicismo che imita l’Europa e che standardizza il modo di suonare e ciò nuoce profondamente alla nostra musica, soprattutto nelle corali in cui tutti respirano nello stesso momento e suonano la stessa nota all’unisono”.

Qual è la filosofia, il pensiero profondo che caratterizza i sufi e il suo legame con la musica?

“Il sufismo fa parte del mio vissuto. Il suo aspetto legato alla tradizione non esiste più. C’è un sufismo speculativo influenzato soprattutto dall’Occidente. La descrizione dei motivi per cui si ruota su sé stessi, i benefici fisici, la terapia sufi, la terapia girando su sé stessi, eccetera. Molte di queste cose sono semplici speculazioni che nulla hanno a che fare con l’aspetto vissuto, spirituale e vero del sufismo. E allora qual è la sua origine? Che lo si voglia o meno, è legata alla storia dell’Islam. Infatti, c’è chi preferisce affermare che è una spiritualità indipendente dalla religione, ma non è vero. Se studiamo la storia dell’Islam, possiamo notare che a partire dal I secolo cominciarono i problemi inizialmente politici, di successione del Profeta. Queste divisioni si riflettono negli scismi tra gli sciiti e i sunniti, eccetera. Non si trattava di problemi veramente religiosi, ma di divisioni politiche che in seguito sono divenute teologiche. In questo contesto, un gruppo di persone che conosceva già la cerchia più ristretta di Maometto, decise di farsi da parte e vivere la tradizione dell’Islam con una religiosità personale profonda, simile a quella del tempo del Profeta. Li chiamiamo i primi sufi. Non venne creata una comunità, sono solo dei nomi. Conosciamo il loro modo di vivere grazie ad alcuni scritti e agiografie stilati in seguito. È soltanto nell’undicesimo secolo che cominciò a sorgere una comunità al di là di Baghdad. Era una via sufi che si diramò dal Marocco fino all’India. A partire dal IX-X secolo prese piede un altro movimento molto più emotivo, la confraternita di Rumi, profondamente sensibile alle parole e ai suoni. Loro sentivano Dio ovunque, una comunità straordinaria. Rumi non fondò una comunità. Era un uomo forte, di grande e profonda gioia, di una religiosità e di una presenza straordinarie. Solo più tardi suo nipote cominciò a formalizzare la comunità dei suoi seguaci, che in epoca ottomana divenne molto grande ed era diffusa dalla Bosnia, da Sarajevo fino a Baghdad, da Gerusalemme al Cairo. C’erano confraternite di Rumi ovunque, a Istanbul ce n’erano cinque, e quasi tutti i membri dell’élite dell’Impero ottomano erano legati ad esse”.

Quindi, che cos’è il pensiero sufi?

“Prima di tutto il sufismo non è la ricerca della gentilezza, non è siate gentili… La tradizione sufi capovolge il nostro legame con il divino. Siamo noi a dover essere contenti di Dio. Questo capovolgimento è molto importante. Significa vivere le cose come se provenissero da Dio, accettandole senza giudizio, qualunque sia la nostra vita. Esiste tutta una letteratura sull’argomento e nelle confraternite si insegnava la teologia islamica, la sua interpretazione, la storia, la calligrafia, la musica. Erano persone molto colte, ma avevano anche esperienza di vita e non facevano solo speculazioni astratte”.

In Occidente la musica classica ottomana è spesso confusa con la musica turca, tuttavia è molto più complesso. Può dirci di più su che cos’è la musica classica ottomana?

“L’Europa ha scoperto l’Oriente e l’Islam attraverso l’impero ottomano a partire dal XVII-XVIII secolo. La prima traduzione in francese del Corano si chiama la religione dei Turchi. Oggi si collega l’Islam al mondo arabo, ma all’epoca si parlava dei Turchi. Ma chi veniva definito turco? Ci sono stati imperi e dinastie turchi la cui popolazione non era necessariamente turca. In Iran, per esempio, la dinastia precedente ai Pahlavi, i Qajar, era turca. I Sassanidi erano turchi. Mahmud di Ghaznà, che fondò l’impero Ghaznavidi, era turco. Suo padre si chiamava Sabuktigin. Persino in India la famiglia di Babur discendeva direttamente da Tamerlano. Gli inglesi preferivano chiamarli Moghul, ma erano turchi provenienti dall’Afghanistan. Quindi questa questione etnica non è come pensano gli antropologi europei. Inoltre mettere etichette etniche alle arti è una terribile limitazione, perché quello ottomano era un impero in cui c’erano anche i greci. Una gran parte del nostro repertorio è opera di armeni, greci, ebrei di Istanbul. Tutti questi popoli facevano parte di una civiltà. Personalmente ritengo molto pericoloso dividere i popoli di un continente per origine etnica, per legami religiosi o linguistici. Al di sopra di tutto ciò c’è una civiltà. Se eliminiamo quest’ultima, le persone cominciano a dire io sono turco, tu sei armeno, greco, eccetera. Ma abbiamo condiviso una civiltà. E il nettare di una civiltà è la musica. La musica bizantina è come la musica turca, ottomana classica. Non ha uno schema diverso. I siriaci in Oriente cantano come i muezzin della Moschea. Gli armeni hanno una loro musica basata sui makhan […]. Così gli ebrei […]. Quindi avevamo una civiltà comune, un modo di vivere comune. Ora, una volta tramontata questa civiltà, cosa rimane? Gruppi etnici. Certo, c’è una musica che possiamo definire turca, o musica anatolica, eccetera, perché i testi sono in turco. A volte la stessa melodia con testi turchi diventa anatolica e armena con i testi in armeno. Armeno o azero non importa. Quindi c’è qualcosa in comune, invece di essere uno strumento di divisione. C’è questo errore quando si parla di musica turca”.

Cosa fare con tutti quei compositori armeni, greci? Che musica è, allora? “All’inizio della Repubblica di Turchia venne trovata una soluzione. All’epoca c’era un forte nazionalismo e si disse che erano greci al servizio della musica turca o armeni al servizio della musica turca. Molto, molto ridicolo, non è vero? Non conosciamo questa storia perché abbiamo rimosso gli avvenimenti negativi del passato, ma comunque all’inizio del ventesimo secolo abbiamo vissuto un forte panturchismo. Come il panarabismo o il sionismo o il panslavismo, il panturchismo definiva tutto come turco. Vennero pubblicati libri in cui si affermava che Maometto fosse turco e la cosa divenne veramente ridicola. La musica ottomana è musica dell’impero, è musica di corte e rappresenta la continuità della musica di tutte le altre corti d’Oriente come quelle di Herat, Samarkand, Baghdad, Nishapur, Konya, Istanbul. È la continuazione della medesima civiltà. Istanbul è il luogo dell’apogeo di tutta questa eredità, quindi per me è sbagliato chiamarla musica turca. È la musica di corte dell’Oriente, è musica colta perché le opere composte a Istanbul si accompagnano alla poesia di Hafez. A Herat Sultan Baikara mise in musica il poema di Haji Bayram. Vissero entrambi nello stesso secolo. C’erano degli scambi culturali come ce n’erano in Europa. Mozart andava in Italia, era apprezzato a Firenze, a Venezia e in tutta Europa. C’è una civiltà europea e c’è una civiltà non europea altrove. In tutta l’Europa c’è una civilizzazione europea e quindi c’è anche una civilizzazione non europea lì fuori. C’è anche una civilizzazione non europea lì fuori”.

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