Musica jazz

“The Köln Concert” contiene moltitudini

Storia e destino della leggendaria esibizione di Keith Jarrett, cinquant’anni dopo

  • 28 gennaio, 11:06
Keith Jarrett

Keith Jarrett

  • Imago/Zuma Press Wire
Di: Michele Serra 

Una questione di soldi, come sempre nella vita.

Era per mettersi in tasca i soldi del biglietto aereo offerto dalla sua promoter, che il giovane Keith Jarrett aveva deciso di farsi in macchina Losanna-Colonia: 700 chilometri abbondanti, per spostarsi da una tappa all’altra del suo tour europeo. Quasi otto ore tra Svizzera (poca) e Germania (tanta) sulla Volkswagen di Manfred Eicher, fondatore della ECM Records di Monaco, che aveva registrato e pubblicato i primi dischi solisti del pianista americano. Mi scuso con chi già conosce la storia, che è stata raccontata centinaia di volte. Cercherò di essere breve.

Jarrett allora non aveva neanche trent’anni, ma si era già fatto un nome suonando, tra gli altri, anche con Miles Davis. Forse il jazz non era il genere musicale più popolare degli anni Settanta, ma lo era abbastanza da permettere a un pianista promettente di riempire i quasi mille posti della Oper Köln, tutto esaurito come in molte altre tappe precedenti di quella serie di concerti. Che sarebbe poi diventata storica proprio grazie a The Köln Concert, registrato quasi contro la volontà di Keith Jarrett e destinato a divenire uno dei dischi jazz più venduti della storia, sicuramente il più venduto se si parla di pianoforte (la stampa, come al solito, non è concorde: le cifre variano dai tre milioni e mezzo dichiarate dai giornali anglosassoni ai cinque di cui parlava il Corriere della Sera la settimana scorsa. Boh). Jarrett, in effetti, aveva pensato di mandare a casa i tecnici del suono, convinto che quel concerto fosse nato sotto una cattiva stella.

Una volta arrivato a Colonia infatti – stanchissimo per il viaggio, devastato dal mal di schiena, affamato dal ristorante italiano che aveva perso la sua ordinazione non lasciandogli il tempo di mangiare – aveva scoperto che il pianoforte Bösendorfer che era stato preparato per lui non era stato (eufemismo!) granché curato: i tasti, lenti; il pedale, malfunzionante; l’accordatura, approssimativa. Ovviamente, non c’era tempo per sostituire lo strumento, e fu solo la testardaggine della già citata promoter a convincere il pianista a suonare lo stesso. Lei, Vera Brandes, una ragazza tedesca appena diciottenne, che aveva gestito solo quattro concerti fino a quel momento, e che risolse la situazione trovando un accordatore capace di rimettere in sesto il pianoforte. I resoconti divergono su alcuni particolari (l’auto di Eicher era effettivamente una teutonica Volkswagen, o un’appena più esotica Renault?), ma la storia rimane assodata e confermata nelle sue linee generali. Storia che sta per diventare un film, che sarà presentato alla Berlinale a febbraio: ennesima prova che il concerto di Colonia è un oggetto musicale ancora incredibilmente persistente, ma soprattutto un oggetto culturale che ha trovato nel corso del tempo un senso più ampio.

Non che la parte musicale sia poco interessante, non c’è bisogno che sia io a dirlo: già la prima suite di ventisei minuti apre le porte su interi mondi. Jarrett sembra prendere come spunto iniziale le note della campanella dell’Opera di Colonia, che ha appena annunciato l’inizio del concerto: idea che sarebbe confermata da qualche risatina del pubblico in sala. Lavora su un ritmo sempre uguale, su un’atmosfera; poi ferma la mano sinistra sulla stessa nota, e su quella appoggia l’improvvisazione eseguita con la destra; si lancia in virtuosismi sempre più arditi, inserisce pause quasi blues, si avventura in sperimentazioni che echeggiano musica classica, torna al jazz, sempre con una mano che fornisce l’architrave musicale (il groove, il contesto armonico) e l’altra che costruisce, a mano a mano che le idee arrivano. Stili, generi, atmosfere diverse in una cornice sorprendentemente unitaria: Jarrett e il Köln Concert contengono moltitudini, tanto per citare il solito Walt Whitman.

Rimarrebbe da capire perché quella serata in particolare rappresenti un apice irripetibile, visto che Jarrett ha suonato altre volte improvvisando davanti al pubblico. Viene da pensare (e da dire) che dipenda da come quella performance in particolare abbia dato un corpo musicale pressoché perfetto all’idea teorica di una composizione istantanea, in cui l’improvvisatore usa un repertorio di schemi musicali precostituiti per arrivare a risultati sconosciuti e sorprendenti. Il noto, per avvicinarsi all’ignoto.

Qualsiasi forma di improvvisazione, dice la saggezza popolare, non è improvvisata. Nel caso del Köln Concert, la differenza probabilmente la fa la chiarezza con cui l’ascoltatore percepisce i momenti in cui Jarrett riesce a liberarsi dei suoi stessi schemi di improvvisatore, e ad avventurarsi in territori inesplorati. I diversi ostinato che guidano questa esplorazione sono, come ha fatto notare qualche critico dell’epoca, «mandala che portano verso la trascendenza». Ah, gli anni Settanta.

L’unico saggio accademico dedicato a The Köln Concert di cui io abbia notizia è stato scritto dal professor Peter Elsdon, un musicologo inglese. Racconta – molto meglio di come ho fatto io – tutto quello che ho scritto in queste poche righe, ma soprattutto mette in evidenza l’eccezionale paradosso che si trova al centro di questi primi cinquant’anni dell’esibizione, e della sua registrazione. L’idea di Keith Jarrett era infatti quella di creare musica irripetibile, figlia del suo talento, certo, ma influenzata dal momento, dalla vita. In questo caso, forse, da una serie di difficoltà che avevano quasi impedito la stessa esecuzione. Una volta registrata e trasformata in vinile (oggi una prima stampa tedesca si porta a casa con circa centocinquanta franchi), quell’idea inevitabilmente cambia: un’opera che nella sua forma iniziale era destinata ad assorbire completamente l’attenzione di una piccola audience specializzata diventa un best-seller per il pubblico generalista, che la ricontestualizza in infiniti modi diversi. Così, il Köln Concert l’abbiamo sentito come sottofondo nei ristoranti eleganti (se non altro denota un certo buon gusto da parte dei gestori), suonato ai funerali (ai matrimoni no, è più difficile), perfino utilizzato come colonna sonora da un grande film italiano, Caro Diario. Per qualcuno, ascoltare The Köln Concert è stato parte di un percorso spirituale verso l’illuminazione, spesso citato da alcuni di quei movimenti che per comodità raccogliamo sotto il nome collettivo di New Age, e che proprio a partire dagli anni Settanta sono fioriti soprattutto in terra americana.

Molte di queste deviazioni sicuramente non piaceranno allo stesso Keith Jarrett, certo. Ma a noi rimane la sensazione di uno scampato pericolo: se Eicher avesse condiviso l’idea di Keith di non registrare, quella serata sarebbe rimasta solo nei ricordi di pochi fortunati. E oggi, che a quel pianista meraviglioso la natura ha purtroppo impedito di suonare, l’ingiustizia sarebbe doppia.

25:29

Il Köln Concert raccontato dai pianisti

Montmartre, Rete Due 24.01.2025, 17:00

  • Keystone

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