Musica italiana

“Va bene, va bene così”: Vasco Rossi prima degli stadi

È uscita la ristampa del disco live del 1984, arricchita di dieci inediti. Un documento del Blasco più selvaggio e ribelle di inizio carriera

  • 14 dicembre, 09:03
Vasco

Il Vasco "normalizzato" dei giorni nostri

  • Iolanda Pompilio/TSCK/LiveMedia
Di: Patrizio Ruviglioni 

Il vero spartiacque della carriera di Vasco Rossi non è stato artistico, ma umano. Il 20 aprile 1984, all’apice della vita spericolata, viene arrestato fuori da una discoteca a Bologna, in un’inchiesta sullo spaccio di droga. Perquisiscono il casale a Casalecchio di Reno in cui vive con alcuni membri della band, una sorta di Isola delle Rose dove dà corpo all’utopia autodistruttiva e libertaria che filtra dalle canzoni; consegna 26 grammi di cocaina, che gli costeranno 22 giorni di carcere, cinque in isolamento. Anni dopo verrà prosciolto dalle accuse di traffico di stupefacenti, ma non da quelle di detenzione (dirà di essere convinto che l’uso personale non costituisse reato). Ma la prigione lo cambia: dal successivo “Cosa succede in città” (1985) i toni si fanno meno estremi, nei brani come nello stile di vita, allineandosi al pop-rock dell’epoca, fino ai concerti negli stadi, nazionalpopolari, di “Fronte del palco” (1990), dove la ribellione giovanile del titolo, à la James Dean, ha in realtà già presentato il conto.

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In uscita ristampa live ‘84 Vasco

Parzialmente scremato, Rete Tre 05.12.2024, 06:05

Eppure tre settimane prima dell’arresto, il 3 aprile, era già uscito un disco destinato a fare la storia e che, in realtà senza volerlo, diventerà l’ultima fotografia – nonché la più lucida, potente – del primo Rossi. “Va bene, va bene così” raccoglie le registrazioni dei concerti dell’anno prima, in cui l’Italia ha fatto i conti con questo personaggio fuori dagli schemi e dalla morale di allora, presto elevato a nemico pubblico numero uno. Uno così divisivo non si era ancora visto: a Sanremo si sono rigettati a vicenda – nel 1982 con “Vado al massimo”, risposta sboccata a chi aveva criticato le sue prime apparizioni televisive, nel 1983 con la ballata “Vita spericolata”, creando il panico tra la platea compita dell’Ariston – ma in estate, al Festivalbar, il pubblico l’ha trascinato alla vittoria, con “Bollicine”, che gioca con gli slogan pubblicitari e la satira, ma che è anche un invito alla cocaina.

Il live, che nella versione originale conta solo nove tracce, compresa la title track, unico inedito del lotto, avrebbe dovuto essere un doppio. Ma la casa discografica di allora, la Carosello, preferisce il singolo, mettendoci il meglio della produzione (“Albachiara”, la stessa “Vita spericolata”, “Siamo solo noi”) in una specie di best of live. Vende un milione di copie, tante anche per l’epoca, e l’effetto è lo stesso: in un periodo in cui i dischi bisogna comprarli, non ci sono playlist e il resto, per migliaia di fan la raccolta fondamentale di Rossi diventa, appunto, questa, sancendo nel suo mondo il mito dei concerti (vissuti, o soprattutto immaginati ascoltando). E ora, per i quarant’anni, è uscita la seconda parte, con le tracce escluse, intanto assurte ad altrettanti, piccoli classici: da “Una canzone per te” alle più estreme “Cosa ti fai” e “Mi piaci perché” (“Mi piaci perché sei bastarda”), fino al debutto di “La nostra relazione”, dove lo spleen di un Vasco primordiale incontra le nenie senza via d’uscita di un Riccardo Cocciante.

Perché – e ascoltando “Va bene, va bene così” nella sua interezza, così come i dischi dall’esordio nel 1978 allo stesso “Bollicine” (1983) – la forza del Rossi degli inizi è questa: prendere i cantautori, compresi Dalla e De Gregori (omaggiati, a modo suo, nella scapestrata “Asilo Republic”), oltre a un più caustico Rino Gaetano, e unirli all’hard rock statunitense, che in Italia non aveva fatto breccia, e al racconto della provincia, questa sì, invece, nelle corde del paese, per quanto altrettanto esclusa dagli orizzonti narrativi di allora. “Siamo solo noi” (1981) è il passaggio di testimone, con l’impegno del Settantasette – dove lui, tra occupazioni e radio libere, si è comunque formato – che lascia il posto a una “generazione di sconvolti, senza né santi né eroi”, che comincia a radunarsi ai suoi concerti nei locali, un po’ alla volta sempre più pieni, al limite. Vasco ne è il simbolo, sia per la strafottenza e il nichilismo che trasudano dai pezzi e sia per uno stile di vita reale, à la sesso, droga & rock’n’roll, con una serie di leggende metropolitane, tutte abbastanza verificate, che in quegli anni lo vogliono costantemente sotto l’effetto di metamfetamina, senza dormire per giorni, simbolo delle migliaia di ragazzi che nel frattempo passano guai con l’eroina. Un fenomeno vero, insomma, di contro-costume.

E se in studio, di pari passo con il successo mediatico, i suoni si stanno comunque orientando verso atmosfere più calme (ma non meno accomodanti), dal vivo è ancora estremo, grazie al supporto della Steve Rogers Band, che si esibisce con lui. Non ci sono filtri, mediazioni: si passa da momenti tirati ad altri malinconici (“Ogni volta”, “Vita spericolata”), in cui Rossi sembra, rallentando, soffrire il peso della vita che fa; più spesso, il concerto è un insieme di provocazioni, testi cambiati, piccoli momenti fuori tempo, addirittura “Fegato, fegato spappolato” viene interrotta per citare “Vado al massimo” – d’altronde, dice, se ho “il fegato spappolato” è “perché vado al massimo”. E giù a cori da parte di chi ha trovato una casa lì e delle storie in cui rispecchiarsi lì e non nel resto della musica italiana di allora. Di fatto, “Va bene, va bene così” è Rossi con l’acceleratore al massimo, prima degli inevitabili compromessi, prima di tutto. La componente autodistruttiva, la sensazione che comunque sarebbe finito tutto, più prima che poi, giocoforza, c’è. Ma anche per questo, il live è una fotografia preziosa.

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