Ha modificato il battito del pianeta facendolo muovere in levare e oggi avrebbe festeggiato ottant’anni, se un melanoma non l’avesse stroncato nel maggio del 1981 a soli trentasei anni. Un breve lasso di tempo che non gli impedì di trasformare i destini della musica del Novecento. E partendo dal ghetto di Trench Town, periferia di Kingston, capitale della Giamaica. Dimostrando al contempo che anche da una piccola isola dilaniata da problemi sociali, politici ed economici rilevanti poteva far la differenza. D’altronde era già successo, e sempre nei Caraibi. Con Cuba e Trinidad (culla del calypso, nato alla fine dell’Ottocento), possiamo annoverare la Giamaica, terra dello ska, del rocksteady e del reggae. È la culla di Bob Marley, degli Skatalites e di Toots & Maytals e casa del rastafarianesimo. Un’isola i cui ritmi e le cui voci hanno riscosso apprezzamenti ovunque, radicandosi tanto nelle comunità caraibiche delle metropoli occidentali quanto tra il pubblico bianco.
80 anni fa nasceva Bob Marley
Parzialmente scremato, Rete Tre 06.02.2025, 06:40
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Non solo grande musica e ottime, grandi canzoni scolpite nell’immaginario e nel vissuto del ventesimo secolo. Marley ancora oggi è un volto, una voce e un cespuglio di dreadlocks che fa bella mostra di sé sulle t-shirt o che pompa dalle autoradio. Perché Robert Nesta Marley non è stato “solo” un artista, ma icona sociopolitica globale, emblema di libertà.
Figlio di un ufficiale della marina britannica e di una ragazza giamaicana, era mosso da una lucida coscienza sociale e da una straordinaria spiritualità. La sua incrollabile fede rastafari gli permise di assurgere a simbolo di un popolo del quale rappresentava, oltre all’anelito spirituale, la voglia di riscatto. Di una comunità libera dal giogo britannico dal 1962 e del movimento rastafari, all’epoca inviso ai più.
«Le mie canzoni possono far ballare, questo è vero, ma devono far pensare, questo è importante» diceva Marley, ricordando la forza e l’impegno con cui attraverso la musica si prodigava contro la violenza e la miseria, la povertà, l’emarginazione e lo sfruttamento di cui era vittima e invischiata la sua gente. Una nazione anche ideale, che si moltiplicava giorno dopo giorno, e in modo esponenziale. Perché la sua musica, le sue canzoni, i suoi messaggi avevano il dono di valicare frontiere, il tempo e lo spazio per parlare ovunque. Possedevano e posseggono ancora un carattere universale spargendo idee, incrementando il bisogno di utopia e di speranza, risvegliando coscienze e coltivando sogni. Anche nel nome di rastafari, la religione professata da Marcus Garvey, politico, predicatore e attivista, punto di riferimento di Marley e riabilitato proprio da Joe Biden a pochi giorni dalla fine del suo mandato.
L’importanza di Marley travalica la mera sfera musicale per inserirsi in un contesto di più ampio respiro «Sono un uomo semplice, la mia mano è guidata da Dio. Appartengo a lui, a Jah Rastafari. E non sono una star, chi lo dice sbaglia. Leggi le parole delle mie canzoni: io non faccio i miei interessi faccio quelli della mia gente, del mio popolo. E vivrò per sempre perché rasta è vita».
E poi vi sono gli aspetti artistici e musicali. Al di fuori dei caraibi il reggae era sconosciuto e Marley fu il detonatore, trasformando la sua musica in un collante straordinario, capace di legare culture, sentimenti e sensibilità differenti. Il “suo” reggae diviene un linguaggio e uno strumento capace di raccontare la vita. E con forza, passione e con quella drammaticità che gli è propria. La sua conscious music è intrisa di messaggi positivi, politica e vita quotidiana, amore e passione, speranza, dolore e rabbia. Quella che respirava e osservava nella sua Trench Town, dove si era trasferito con la famiglia da ragazzino. Baracche di legno e lamiera, covo di spacciatori e della criminalità ma anche crogiolo di talenti musicali. Si diceva che questo miserabile ghetto vantasse il più alto rapporto di musicisti abitanti del mondo!
Proprio lì giovane Bob conobbe altri due ragazzi senza apparente futuro: Peter Tosh (il ribelle) e Bunny Wailer (il mistico); e proprio con loro, con i Wailers, cambiò i destini della musica. Quando dopo mille peripezie la Island Records pubblicò nel ’72 Catch a Fire, il primo disco “internazionale” di Marley & The Wailers, successe il finimondo. I cuori della gente di colore di mezzo mondo si infiammarono e inaspettatamente fece breccia anche tra la popolazione bianca. Il suo messaggio di pace, eguaglianza e amore divenne universale, capace di scavalcare le razze, i colori, gli status economici e sociali. Lo conferma Natty Dread del ’74, l’album definitivo. Trasuda di canzoni e messaggi importanti, di accuse e rivelazioni. È il disco di No Woman, No Cry, Talkin’ Blues, Lively Up Yourself e Revolution. Congedati Tosh e Bunny Wailer, Natty Dread è anche il suo trionfo artistico. Che gli spalanca definitivamente le porte del successo internazionale. Il reggae è ormai un linguaggio parlato ovunque, che informa e dialoga col pop, flirta col rock e seduce ovunque pubblico e artisti. E Marley non è solo una rock star. Sfuggendo agli stereotipi del genere, assurge allo status di profeta, con tutta l’aura che il termine porta in grembo. È il simbolo della liberazione dalla schiavitù di Babilonia, della vittoria del popolo di Jah e le sue canzoni trascendono, per divenir strumento di coscienza sociale e risveglio politico. Non è solo musica la sua, è anche filosofia e resistenza etica, con un ulteriore valore aggiunto: essere ballabile. I dieci album pubblicati in vita testimoniano la qualità assoluta espressa dalla prima star terzomondista planetaria nel corso della sua breve parabola umana e artistica. Così come gli epici concerti-evento tra i quali, vicino a noi, Zurigo e Milano nel 1980, un anno prima della scomparsa. Eventi che dimostrarono una volta ancora la portata del suo verbo, i cui sogni e le cui utopie sono ancora lungi dal tramontare.