Nell’ottobre del 1975, Elton John aveva 28 anni e una casa a Los Angeles. O meglio, una villa nella zona di Benedict Canyon, appena sopra Beverly Hills. A pochi passi da quella dove era stata uccisa Sharon Tate, nello stesso quartiere che aveva ospitato gente come Fred Astaire e Jimi Hendrix. Oggi i nomi sui citofoni (ok, non credo ci siano davvero) sono quelli di Bruce Springsteen, Gene Simmons e David Geffen, giusto per limitarci al mondo musicale.
Questo per dire che quello era, senza dubbio, il posto giusto per ospitare un musicista pop all’apice della fama, pronto a suonare davanti a centomila persone al Dodgers Stadium. Prima di lui, il tempio del baseball della California aveva aperto le sue porte alla musica solo per i Beatles, nel 1966. Il parallelo non deve stupire, perché Elton John era i Beatles del decennio successivo: aveva conquistato gli Stati Uniti partendo dall’Inghilterra, prodotto otto album in cinque anni (tra i quali almeno un capolavoro assoluto), e raggiunto livelli di fama semplicemente astronomici. Ma due giorni prima del concerto che doveva rappresentare l’apice della sua carriera, in vestaglia davanti alla piscina del suo lussuoso giardino, annunciò solennemente ai presenti: «Ho preso 85 pastiglie di Valium e morirò entro un’ora», prima di lasciarsi cadere nell’acqua (scena appena leggermente romanzata dal film “Rocket Man” del 2019).
I membri della sua band lo ripescarono, e un’ambulanza lo portò in ospedale per la lavanda gastrica. In seguito, dirà che era stressato e imbottito di sostanze stupefacenti, ma che sicuramente non voleva uccidersi davvero. E racconterà che sua nonna, fatta arrivare con un jet privato dall’Inghilterra solo pochi giorni prima insieme al resto della famiglia e degli amici, aveva commentato solamente: «Credo che dovremo tornarcene a casa, ora». Anche il suo socio, Bernie Taupin, ricorda di non essere rimasto particolarmente impressionato: «Non avevamo dato tutto questo peso alla cosa. Era il nostro ragazzo, che metteva in scena il solito dramma per gli amici e i parenti. Era molto bravo in questo!» E in effetti, due giorni dopo, Elton John era salito sul palco del Dodgers Stadium, con un completo da baseball scintillante di paillette, a suonare e cantare una scaletta di trentun canzoni. In prima fila ad applaudirlo c’era Cary Grant.
In “Elton John – Never Too Late”, il documentario appena arrivato su Disney+, ritroviamo la star a Los Angeles, pronta per esibirsi al Dodgers Stadium. Ma il contesto è cambiato: non siamo più nel 1975, ma nel 2022, e Elton John aspetta l’ultimo concerto del suo tour di addio. È pacificato, ora che – dice – «Ho capito come far funzionare la mia vita da uomo, e non da rockstar». Ci ha messo poco più di quarant’anni, facendo i conti. A settantacinque anni può dire di essere sobrio da decenni, tanto per cominciare. E poi il suo manager non è più il suo partner di allora John Reid, ma suo marito David Furnish, con cui ha cresciuto due figli.
Furnish è anche il co-regista di questo documentario, che in effetti usa il concerto del 2022 (stavolta a vederlo c’erano, tra gli altri, Paul McCartney e Mick Jagger) come trampolino per riportarci una volta di più al decennio d’oro dei Settanta, raccontato direttamente dalla voce di Elton John, registrata dal suo biografo ufficiale Alex Petridis. Dentro, ci sono le storie che più o meno già conosciamo, e che ormai fanno parte del canone eltoniano: l’infanzia difficile, la collaborazione con Bernie Taupin, la fama inseguita e poi raggiunta, la relazione travagliata con Reid, la dipendenza dalla cocaina, la bulimia, fino alla copertina di Rolling Stone del 1976 in cui annunciava di essere bisessuale. Poi si passa all’Elton nuovo, quello che si è disintossicato negli anni Novanta, che si è dedicato all’amore e alla famiglia, che è soddisfatto della sua vita – e ci mancherebbe, verrebbe da dire a noi normali. E forse la parte più deludente del film è proprio questa.
Certo, è ovvio che la metà più recente della carriera di Elton John non può contare su un centro drammatico riconoscibile come quello dell’artista tanto geniale quanto votato all’autodistruzione, ma è impossibile che proprio la persona più vicina a lui possa – o più probabilmente, voglia – raccontare così poco della sua vita “umana”, per riprendere la distinzione che lui stesso faceva. Della vita privata di Elton John, ce n’era ben di più nell’altro film realizzato da Furnish all’inizio della loro relazione, “Tantrums and Tiaras”.
“Never Too Late” il documentario su Elton John
RSI Cultura 14.12.2024, 18:00
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“Never Too Late” non è del tutto privo di toccanti momenti personali, ma anche questi sono riferiti soprattutto al passato. Spicca il ricordo della sua amicizia con John Lennon, culminata nella registrazione di “Whatever Gets You Through the Night”: Elton scommise con John che, se la canzone avesse raggiunto il primo posto in classifica, avrebbero suonato insieme al Madison Square Garden, cosa che puntualmente avvenne nel giorno del ringraziamento del 1974. Sarebbe stata l’ultima esibizione dal vivo, per Lennon, che nei sei anni successivi si ritirò dalle scene per dedicarsi alla moglie e al figlio Sean: quest’ultimo, secondo Elton John, fu concepito proprio la notte del concerto al Madison Square Garden, che segnò la riappacificazione tra Lennon e Yoko Ono. “Never Too Late” racconta le notti passate con John insieme a Andy Warhol, con una notevolissima quantità di droghe. Ma per dare vita a quella e ad altre sequenze che rendono conto degli eccessi di quel periodo, usa i cartoni animati: difficile non pensare che siano probabilmente i più “adulti” che la Walt Disney Pictures abbia mai prodotto.
Forse questo nuovo racconto dell’ennesima vita spericolata della storia della musica pop finirà per annoiare gli spettatori, che l’hanno già sentito molte altre volte. Le canzoni invece no, anche se – pure quelle – le abbiamo già ascoltate fino a farci sanguinare le orecchie. In fondo si tratta dell’ennesima testimonianza della magia di Elton John, che da qualsiasi parte lo giri, oggi come quarant’anni fa, non sembra avere il fisico del ruolo per fare la rockstar: cosa c’entra un tipo come lui con Mick Jagger, Robert Plant o David Bowie? Invece, in un attimo, Shazam! Elton può diventare uguale a loro: basta dargli un pianoforte e un palco. Se poi è quello dello stadio di Los Angeles, ancora meglio.