È l’anno dei ricordi grunge, purtroppo o per fortuna. Ma non è solo una questione di nostalgia.
Trent’anni di distanza dalla metà degli anni Novanta, dagli ultimi fuochi dell’era del rock, forse sono il momento giusto per capire quale, di quella musica, ha passato la prova del tempo. Si arriva a un’età, del resto, in cui oltre ad ascoltare si comincia a riascoltare, e si procede a un’ulteriore cernita di ciò che si è amato fino a quel punto della vita. Così scopriamo che gran parte degli artefatti del passato possono rimanere lì, tranquillamente cristallizzati nell’ambra della loro epoca. Certo. Ma quelli che passano tra le maglie di questo setaccio, è probabile rimangano con noi per l’eternità.
Perdonate le cento parole sprecate: servono solo a dire che ascolterò Jar of Flies, uscito il 25 gennaio 1994, tutta la vita, e ne trarrò sempre la stessa sensazione di conforto, nonostante il fatto che si tratti di uno dei dischi più disperati della storia del grunge – che già di suo non era esattamente una puntata di Friends, tanto per rimanere in tema Novanta. Il suono elettroacustico, le radici folk e blues ancora riconoscibili per quanto immerse nell’acido, gli archi inaspettati. Ovviamente, la voce di Layne Staley, che riesce a mettere insieme sincerità assoluta e melodramma. Un album perfetto. Che non è neppure un album, ma solo un EP, dicevano gli stessi Alice in Chains.
Jar of Flies è ricordato come “il primo EP a debuttare al primo posto delle classifiche” nella storia della musica americana. In effetti, così dice Wikipedia. La stessa Wikipedia che dichiara – qualche link più in là – che un EP per definirsi tale deve durare dai 15 ai 22 minuti. Jar of Flies ne dura 31, per la precisione pochi secondi in meno. Quindi? Si capisce subito che si tratta di roba irregolare. Aggiungiamo che si tratta di un disco che suonava in modo nettamente diverso rispetto a quelli che avevano dato la fama agli Alice In Chains, band inclassificabile per eccellenza tra quelle del Seattle sound.
Già, perché oggi il gruppo è considerato l’ultimo arrivato tra i quattro grandi del grunge, visto che nell’anno del primo successo di Pearl Jam, Nirvana e Soundgarden – il 1991 – gli Alice in Chains non avevano pubblicato nulla. Eppure nei fatti la band era famosa anche prima del grunge. In quel 1991, visto che la definizione “grunge” era ancora relativamente poco popolare, erano considerati semplicemente appartenenti alla nuova ondata metal: il loro Facelift del 1990 era arrivato, senza fretta, a vendere più di mezzo milione di copie, e il videoclip di Man in the Box aveva turbato i sogni di molti spettatori di MTV. Considerarli un gruppo metal non era, in ogni caso, né scorretto né irrispettoso; e di quel mondo metal alternativo – parola oggi in disuso, ma che un tempo aveva un significato ben preciso – Staley era già diventato un’icona. Per qualche mese erano stati gli Alice in Chains, la band sulla bocca di tutti a Seattle, poi il successo mostruoso dei colleghi li aveva fatti tornare nuovamente inseguitori, almeno fino all’autunno 1992, quando l’uscita di Dirt li aveva catapultati nuovamente al centro della scena cittadina, e del mondo di conseguenza.
Arriviamo dunque al 1993, e a quell’EP/LP che nasce irregolare e sbagliato, perfino frutto del caso, secondo una storia che assume le tinte della leggenda urbana. Alla fine dell’estate gli Alice In Chains avevano concluso il loro tour con il festival itinerante Lollapalooza (insieme a Rage Against The Machine, Tool e Primus, tra gli altri), nelle parole di Layne Staley (in un’intervista rilasciata al mensile Hit Parader) «50.000 miglia in cui ogni sera avevamo suonato musica spacca-timpani». L’idea era quindi quella di prendersi una specie di momento di rigenerazione creativa, a Seattle, tra casa e studio. Qui cominciano a fiorire le leggende, che dicono che la band, o alcuni dei suoi membri, fosse stata sfrattata dall’appartamento in cui viveva durante l’assenza per il tour, e così lo studio (lo stesso delle registrazioni di Facelift e Dirt) era diventato anche casa. Difficile dire se sia vero, oggi. Ma in ogni caso, l’atmosfera rifletteva quello stato di grazia creativa che capita raramente nella vita di un gruppo: momenti in cui può capitare che capolavori nascano dal nulla.
Staley, il chitarrista Jerry Cantrell e il batterista Sean Kinney avevano accolto a braccia aperte il nuovo bassista Mike Inez, che aveva sostituito Mike Starr, buttato fuori dalla band per i suoi problemi di dipendenze. Non avevano preparato niente, e pensavano che il materiale registrato sarebbe rimasto nei cassetti, o tornato buono come B-Side per progetti futuri.
Senza troppi piani, si poteva abbracciare la massima libertà musicale: così, ecco la dolcezza di Nutshell, la chitarra jangle di No Excuses, i già citati archi in I stay Away, fino all’imprevedibile trio che chiude l’album: una strumentale (Whale & Wasp), una canzoncina folk che richiedeva perfino la presenza di un’armonica a bocca (Don’t Follow), e il colpo di genio finale di un improbabilissimo numero grunge-jazz (Swing on This), che si chiude con Inez che nota il produttore Toby Wright che se la ride dall’altra parte del vetro («Toby sta ancora ridendo»).
Probabilmente è proprio questa, la chiave di volta che regge l’architettura improvvisata di Jar of Flies: il contrasto tra la dolcezza giocosa e l’acidità urticante, che si specchia perfettamente nelle parole cantate da Layne Staley (con più di un piccolo aiuto da parte di Jerry Cantrell), disperate e sincere eppure spesso venate di ironia nera. In questo senso, il cuore del disco è rappresentato senza dubbio da I Stay Away e No Excuses, dove è facile intravedere, nei testi, riferimenti al rapporto tra il frontman Staley e il chitarrista Cantrell. Un rapporto fraterno e funestato dalla dipendenza da eroina, che spezzerà la carriera della band a metà anni Novanta e trascinerà Staley in un gorgo depressivo fino alla morte avvenuta nel 2002 – il 5 aprile, lo stesso giorno di Kurt Cobain, tanto per accontentare chi crede nel destino.
Ma sarebbe sbagliato ridurre la grandezza di Jar of Flies a quel profetico «If I can’t be my own/I’d feel better dead» cantato da Staley in Nutshell, a semplice esempio di quella poetica tossica autodistruttiva che gli Alice in Chains hanno portato in primo piano, distruggendo ogni pudore riguardo alla passione dei ragazzi di Seattle di quell’epoca per le sostanze stupefacenti. C’è dentro moltissimo di più. Oggi lo sappiamo. E sappiamo che altrimenti il tempo se lo sarebbe già portato via.
“The Reflex”
Mix Parade 13.01.2024, 14:00
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