Ah, gli anni Ottanta. Sembrano lontani un secolo. Pensateci: quante colonne sonore di film, nell’ultimo quindicennio, sono arrivate al primo posto in classifica? (Lo so, lo so, che i tempi sono cambiati, che gli album non si vendono più, eccetera, ma comunque). A parte “Frozen”, non me ne viene in mente nessuna. E poi quella è Disney, mica vale.
Negli anni Ottanta invece c’erano cosette come “Purple Rain”, “Blues Brothers”, “Dirty Dancing”, “Top Gun”. Tutte al numero 1 della classifica di Billboard, tutte capaci di vendere milioni di copie, in vinile, cd o musicassetta. Alcune – soprattutto se composte e suonate da Prince – molto più note del film che accompagnavano.
Insomma, la congiuntura era favorevole. Ma quello di “Beverly Hills Cop” fu comunque un azzardo: i produttori Jerry Bruckheimer e Don Simpson (mito della Hollywood anni Ottanta, capace di produrre blockbuster leggendari e poi distruggersi di sostanze stupefacenti, fino al più classico infarto nel bagno della villa di Bel Air) avevano deciso di affidare la colonna sonora di quello che sarebbe dovuto essere il successo capace di cementare la loro fama ad Harold Faltermeyer, giovane compositore tedesco che aveva lavorato con loro sul thriller erotico (anche quella roba d’altri tempi, lo so) “Ladro di donne”. C’erano però due motivi di inquietudine: il primo, che “Ladro di donne” era stato l’unico loro flop in anni estremamente positivi; il secondo, che “Beverly Hills Cop” era una commedia, e ai tempi le commedie richiedevano una colonna sonora orchestrale. «Si trattava di un’estetica sonora alla Hanna-Barbera, con l’orchestra e temi da cartone animato», ha ricordato in seguito lo stesso Faltermeyer. Ma per lui, l’orchestra non era un’opzione: aveva scelto la strada dell’elettronica e dei sintetizzatori, non sarebbe tornato indietro.
E pensare che era partito dalla musica classica.
Non che fosse un grande appassionato di classica, il giovane Harold. Aveva una formazione da pianista, certo. E uno dei suoi insegnanti di musica, quando aveva solo undici anni, aveva decretato che il ragazzo fosse provvisto dell’orecchio assoluto (ammesso che esista affettivamente).
Ma negli anni dell’adolescenza si era innamorato del rock, del jazz e del soul, tanto da aver fondato diverse band insieme ad amici e familiari, e poco più grande si esibiva nei locali del Lehel, ancora oggi il quartiere più bello della sua città, Monaco. Tuttavia, la classica rimaneva una parte importantissima della sua vita: mentre frequentava il conservatorio, Harold infatti si manteneva lavorando come assistente tecnico del suono negli studi della Deutsche Grammophon. Un ambiente che si era rivelato meno stimolante del previsto: l’organizzazione era rigidamente gerarchica, e sia la tecnologia che l’atteggiamento sembravano destinati a essere presto superati dai tempi. Ai tecnici era richiesto di indossare camici bianchi, come medici in sala operatoria, e soprattutto ogni reparto coinvolto nella produzione di un disco poteva occuparsi solo del proprio settore, nient’altro. Era espressamente vietato alla parte tecnica lo scambio di idee con quella artistica: i lavoratori della Deutsche Grammophon marciavano verso un obbiettivo comune, ma rimanevano su strade rigidamente separate, il che risultava piuttosto alienante per il giovane Harold. Tuttavia, fu proprio nelle «sacre sale» (così le definisce lo stesso Faltermeyer nella sua autobiografia “Grüß Gott, Hollywood”) che avvenne l’incontro destinato a cambiargli la vita: quello con un musicista tanto geniale e rivoluzionario, quanto apparentemente fuori posto nel tempio della classica.
40 anni colonna sonora Beverly Hills Cop
RSI Cultura 21.12.2024, 18:00
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Faltermeyer lo racconta così: «Un giorno, la porta si aprì e comparve un enorme bassotto bavoso, seguito da un uomo magro con i baffi e un cappotto di pelliccia lungo fino al pavimento. Era Giorgio Moroder. Quel Giorgio Moroder! Aveva portato un demo con una canzone per un cantante che di tanto in tanto frequentava il nostro studio. E visto che era lì, ha chiesto di dare un’occhiata da vicino a quel rinomato studio, di cui aveva tanto sentito parlare». Come sempre nell’esistenza umana, il talento serve, ma la fortuna molto di più.
Moroder, quel giorno, fece Moroder: la prima cosa che disse avvicinandosi alla postazione di Faltermeyer fu «Oh, stai ancora lavorando con due tracce? È roba vecchia, dovreste procurarvi un registratore multitraccia. Noi stiamo lavorando con uno studio a 16 tracce». Quella frase colpì il giovane Harold come un fulmine: a pochi chilometri da dove lavorava lui, c’era un altro studio – il Musicland – dove si guardava verso il futuro della musica. Doveva farlo anche lui, e cominciò moltiplicando i suoi sforzi davanti al mixer: si fece notare, trasformandosi da semplice stagista a talento riconosciuto della produzione all’interno di uno studio in cui spesso passava per qualche chiacchiera con gli amici anche il tecnico del suono di Moroder, Jürgen Koppers. Poco tempo dopo, arrivò la telefonata, naturalmente a notte inoltrata: dall’altra parte del filo, una voce dal marcato accento altoatesino chiedeva a Harold di venire a lavorare al Musicland.
Fast forward di un lustro: Harold, oltre a lavorare ancora con Giorgio, si è costruito una sua carriera di produttore. Roland JX-3P, Yamayha DX-7, Moog Model 15 e tutti gli altri strumenti fondamentali per il pop elettronico da classifica negli anni Ottanta sono ormai un’estensione del suo corpo. Ma quello su “Beverly Hills Cop” era un lavoro che non lo faceva dormire la notte: c’era il già citato insuccesso di “Ladro di donne”, che pesava sul suo rapporto con Bruckheimer & Simpson; soprattutto, c’erano grandi aspettative riguardo a questa commedia poliziesca che vedeva protagonista il comico di maggior successo del momento, che dopo il Saturday Night Live aveva inanellato trionfi come “48 ore” e “Una poltrona per due”. Insomma, Harold non poteva sbagliare.
Decise di usare una ricetta semplice, mescolando electro-funk, melodie essenziali, Afrika Bambaataa, kraut-rock, disco music. Il lavoro procedeva bene, ma mancava un leitmotiv degno di questo nome. Qualcosa degno di essere ricordato. Dopo molti tentativi, e – come sempre – a poche ore dall’ultima scadenza, uscirono quelle 23 note, intitolate “Axel F”. Harold riunì i produttori e il regista, Martin Brest, per fargliele ascoltare. I primi due non erano molto convinti, e Simpson aveva anche fatto un piccolo incidente nel viaggio verso lo studio (sì, era piuttosto probabile che il suo stato di coscienza fosse alterato). Per fortuna, Brest si disse entusiasta.
I vertici della Paramount Pictures, invece, quando fu loro presentato quel primo demo, rimasero piuttosto turbati: «Dov’è l’orchestra? Chi suonerà la batteria?» furono solo le prime di molte domande rivolte a regista e produttori, con tono via via più preoccupato. Ovviamente, la batteria l’avrebbe suonata una Roland TR 808, ma per tranquillizzare i manager, Bruckheimer e Simpson decisero di assumere comunque dei musicisti che facevano parte del sindacato degli orchestrali di Hollywood: in questo modo avrebbero anche evitato polemiche proprio da parte dei lavoratori, preoccupati di una eventuale “sostituzione” da parte delle macchine (e se questa idea vi ricorda da vicino certi discorsi fatti negli ultimi tempi riguardo alla cosiddetta intelligenza artificiale, forse non avete torto). Questo creò una strana situazione: c’erano tre o quattro musicisti assunti che rimanevano in studio con Harold, ma non suonavano con lui. Semplicemente, lo osservavano mettere a punto la colonna sonora, mentre chiacchieravano del più e del meno. Il fatto sorprendente fu che gli stessi musicisti, lungi dall’essere delusi o frustrati per la situazione, finirono per appassionarsi notevolmente al lavoro di quello strano tipo tedesco, anticipando il responso incredibilmente positivo del pubblico: “Axel F” divenne una hit mondiale, e il traino più importante per una pellicola che arrivò ben oltre i trecento milioni di dollari di incasso globale, mentre Harold Faltermeyer riceveva tre nomination ai Grammy. Il resto, si dice di solito, è storia. Ma nel caso di Faltermeyer, bisogna essere più precisi: la sua è storia degli anni Ottanta, al fianco di gente come Billy Idol e Patty LaBelle, fino al capolavoro dei Pet Shop Boys “Behaviour” nel 1990.