Il 5 febbraio del 1981 una giovane di talento e di bellezza austera, si presenta sul palcoscenico più celebre d’Italia e trionfa. Mettendo in fila “Maledetta primavera” della Goggi, “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri e “Ancora” di De Crescenzo, cioè tre canzoni che diverranno storia della canzone italiana.
La palma va a “Per Elisa”, canzone che reca firme nobili quali, oltre alla sua, Battiato e Giusto Pio. Il bardo catanese aveva già battezzato il sodalizio con Carla Bissi l’anno precedente con l’album “Capo Nord”, quello de “Il vento caldo dell’estate”.
Alice non è la classica meteora, il mondo della musica lo frequentava da anni come Carla Bissi prima, Alice Visconti poi. Lunga gavetta tra ombre e qualche luce: aveva vinto Castrocaro e la Gondola d’argento grazie a una canzone offertale da Franco Califano, “La festa mia”. Era entrata nel giro dei Pooh, ma l’esperienza si rivela infelice; non si riesce a valorizza la sua voce e la sua personalità. Un paio di album senza infamia e senza lode e il ritiro dalle scene.
Evirato il cognome d’arte la ritroviamo nell’80, semplicemente come Alice, ad inaugurare un sodalizio significativo e un’amicizia che durerà per la vita. Oltre il tempo, le mode, le oscillazioni del gusto. E che contribuirà a darle quello spessore artistico che le riconosciamo. Non a caso nel corso del tempo si è fatta più volte strumento della musica di Battiato e di ciò che le ha trasmesso. Anche lei ha rivolto lo sguardo al misticismo, ai maestri Sufi, all’esoterismo, a Gurdjieff, ad Aurobindo. Anche lei non si è mai lasciata imbrigliare dal presenzialismo televisivo, non si è mai immolata sull’altare della ricerca del successo a ogni costo, sempre sorda alle sirene del facile e scontato consenso. Rifiuta di trasferirsi in America per alcune stagioni nonostante contratti e prospettive professionali rilevanti.
E all’artista catanese negli ultimi tour come nell’album del 1985, “Gioielli rubati”, ha sempre riservato un posto speciale interpretandolo, valorizzandolo. Ricordo anche che insieme a metà degli anni ’80 si presentarono all’Eurovision con “I treni di Tozeur”. Un’ affinità e una crescita artistica e umana che la rendono apprezzata in Italia e all’ estero; una voce, una personalità e una credibilità che le permettono di collaborare con gente come Steve Jensen e Barbieri, la metà dei Japan, Tony Levin e Jerry Marotta (sodali di Peter Gabriel), Peter Hammill, Jon Hassel, Paolo Fresu coi quali registrerà album e canzoni che nel solco della qualità e della ricerca le permettono di affrancarsi dal proprio pigmalione.
Con Battiato e il suo staff Alice attraversa una porzione importante degli anni ’80. Poi viene l’esigenza di emanciparsi, di crescere sia dal profilo artistico che umano per ampliare i suoi interessi, velleità artistiche e necessità evolutive. “Park Hotel” del 1986 è un album miliare. Levin, Marotta e Manzanera sono la supernova che la coadiuva sotto l’egida del “deus ex machina” Francesco Messina, siciliano come Battiato di cui è amico, collaboratore e confidente, e di Alice; diverrà oltre che produttore, compagno di vita. Un album intimista e sperimentale avvolto da sonorità elettroniche e di frontiera in cui brilla una perla: “Nomadi”. Scritta da Juri Camisasca, pure lui antico sodale di Battiato, che per undici anni si ritirò a vita monastica. “Nomadi” è brano universale, ripreso poi dallo stesso Battiato e da Giuni Russo.
Camisasca collabora ancora con l’artista di Forlì realizzando alcune perle del successivo “Il sole nella pioggia”. Un album monumentale nelle sue poetiche, nelle eleganti tessiture sonore a tratti rarefatte che abbracciano il pop, la scrittura d’autore, l’etno-world che si stava profilando sempre più nella musica di consumo. L’album è uno dei vertici assoluti della sua opera, un gioiello il cui messaggio di fondo è che “nella sobrietà del silenzio si cela il messaggio”. Canzoni che confermano una voce unica, distintiva che possiede un timbro capace come pochi di trasmettere emozioni e profondità. Una voce espressiva, dall’ ampia estensione, che unitamente al timbro, le consente di affrontare ambiti sonori seducenti, originali; quelli affrescati da musicisti ispirati, di assoluto talento e dall’invidiabile pedigree.
Il decennio successivo si apre all’insegna di un pop di classe e sofisticato. Ma il viaggio di Alice abbraccia una direzione inevitabile con l’album “Park Hotel”, intimista e sperimentale, che culmina con la raccolta di musica sacra “God is my DJ”. Il focus è la “ricerca del sacro nella musica” come dichiarò dall’artista stessa. Pagine di Battiato e Arvo Pärt, David Crosby e Gavin Bryars, di anonimi e dei Popol Vuh. Autori, musiche, sensibilità e canzoni che nelle loro differenze si amalgamano, si integrano scrivendo un racconto emozionate e di grande spessore.
Questa alchimia la ritroviamo qualche anno dopo con “Viaggio in Italia” un album di cover, che si snoda tra canzoni poco frequentate di autori quali Battisti, Gaber, Guccini, Fossati, Ferré ma anche testi di Pasolini e Joyce. Un album di cover che davvero non sembra tale grazie alla superba resa interpretativa che Alice offre. Ampliano il suo repertorio, il suo viaggio artistico e umano di incontri, riferimenti culturali ed emozionali. Come ci aveva dimostrato anche negli anni precedenti col coraggioso “Melodie passeggere”, il suo omaggio agli autori dell’800 come Ravel, Ferrè e Satie.
Ed è forse questo il segreto della sua longevità artistica e reputazione granitica. La sua discografia e i suoi concerti, la sua scrittura e la scelta dei compagni di viaggio non sono mai affrancati dalla costante ricerca artistica ed evolutiva. In barba al successo, alle vendite, al glamour. Si rivelano invece una sorta di mappa artistica ed emozionale. Un incrocio, un’intersezione, un macramè di mondi sonori in dialogo sul terreno della Bellezza.