l’analisi

Il 1994 è meglio del 2024

Ricordiamo l’anno in cui l’occidente fu conquistato dal suono “alternativo” (qualsiasi cosa questa parola significhi)

  • 13 gennaio, 14:00
  • 31 maggio, 12:23
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L’anno che è appena iniziato, il 2024, potrebbe anche essere quello di una rivoluzione musicale, chissà (lecito essere scettici al riguardo, visto che tra i trend del 2023 ci sono stati gli highlander del rock e perfino il ritorno del country). Ma a dispetto di qualsiasi novità possano portare i prossimi undici mesi e mezzo, possiamo dirci pressoché certi che – alla prova del tempo – difficilmente il 2024 reggerà il confronto con la stagione fugace e meravigliosa passata esattamente da tre decenni. Già: il 1994, anno unico e irripetibile per la musica, canto del cigno del rock, ultimo fuoco di un Novecento che rischia di rendere tutti terribilmente nostalgici – chi c’era e perfino chi non c’era, vista la diffusione della sindrome da età dell’oro tra i ragazzi della generazione Z che riscoprono i Fletwood Mac attraverso TikTok.

Già, perché il 1994 aveva tutto, e rappresenta uno dei pochi momenti nella storia recente della musica in cui il successo e la libertà artistica siano riusciti a condividere il palco. Tutto grazie a semi fioriti nel mainstream ma piantati dalla musica “alternativa” – la stessa che oggi, inutile sottolinearlo, non ha più alcuna influenza, o quasi. Nirvana e Pearl Jam, Green Day e Offspring, Beck, Beastie Boys, Nine Inch Nails, Soundgarden… ma anche Oasis e Blur. Tutte le star erano in un certo senso figlie della musica “alternativa”, parola che nel 1994 sembrava aver perso ogni significato: alternativa a cosa, se era diventata la musica trasmessa dalle radio, protagonista di concerti oceanici, capace di portare milioni nelle casse delle case discografiche?

Il 1994 è del resto un anno musicale affascinante per diritto di nascita, visto il suo ruolo di ponte tra la musica del ventesimo e del ventunesimo secolo, tra un mondo ancora principalmente analogico e quello tecnologico, veloce, frammentato. La digitalizzazione nel 1994 era già più che una prospettiva fantascientifica, e i musicisti cominciavano a tenerne conto, dividendosi tra accelerazionisti e neo-luddisti. Così gli ingegneri dell’hip-hop e dell’elettronica si contrapponevano a chi cercava un suono completamente libero da ogni abbellimento meccanico, ed entrambe le parti portavano contributi eccezionali: il 1994 è ad esempio l’anno della svolta per Aphex Twin e Notorious B.I.G., ma anche quello in cui ragazzi come Elliott Smith e soprattutto il già citato Beck Hansen portavano alle masse musica registrata in cameretta.

Non che la musica pop avesse perso peso, per carità – Celine Dion e Mariah Carey facevano numeri da capogiro con pezzi come The power of love e Hero – però la proposta alternativa giocava ormai nello stesso campionato delle star più tradizionali. Si potrebbe dire che il successo poteva baciare una grande varietà di generi e artisti differenti, e questo è un fatto di per sé positivo, qualsiasi cosa si pensi della musica di quel periodo – e al netto delle negatività che quell’anno ha portato con sé, a cominciare ovviamente dal suicidio di Kurt Cobain.

L’edizione americana di Rolling Stone parlava del 1994 come dell’anno in cui i perdenti avevano finalmente vinto, ricordando i ben otto album alt-rock in vetta alle classifiche americane, e soprattutto il record di vendite degli Offspring: il loro Smash è infatti l’album più venduto pubblicato da un’etichetta indipendente nell’intera storia della musica americana. L’etichetta è ovviamente la Epitaph Records, fondata dal chitarrista dei Bad Religion Brett Gurewitz più di dieci anni prima per pubblicare la musica della band e diventata presto punto di riferimento per il punk che veniva dalla West Coast (NOFX, Pennywise, Rancid…).

Ovviamente sia il concetto di loser che quello di “indipendente” possono essere oggetto di dibattito: se è vero che proliferavano le etichette davvero indie, create da musicisti, manager e perfino fan, avere successo significava ancora essere legati alle major. Qualcuno ha classificato come indie i primi Weezer, i Jesus and Mary Chain, i Sonic Youth, gli Smashing Pumpkins, ma nella realtà dei fatti (o meglio, dei contratti) quei gruppi erano legati a Universal, Warner Bros, Sony, Virgin. Tuttavia, anche se i soldi diventavano mainstream, il suono rimaneva nella maggior parte dei casi consapevolmente indie, e questo è comunque qualcosa che possiamo ricordare con affetto, oggi che la “svolta pop” sembra essere diventata un punto di passaggio obbligato nella carriera di ogni musicista.

Le band del 1994, insomma, sembravano essere riuscite in un’impresa portata a termine forse per l’ultima volta nella storia della musica: erano diventate popolari senza diventare pop.
Del resto, erano musicisti figli di una nicchia ecologica che li proteggeva e li teneva lontani dalle tentazioni, e se questi vi sembrano termini più adatti a descrivere una setta, non è un caso: i fan diventavano spesso spietati carnefici, con chi veniva percepito come “traditore”. Un certo livello di integralismo era parte del DNA del mondo alternativo, nato come reazione all’apice agli anni Ottanta, alla sensazione che MTV, le radio commerciali e le classifiche fossero ormai solo fabbriche di prodotti creati a tavolino nelle sale riunioni delle case discografiche. Non era del tutto vero, per carità, ma senza dubbio chi suonava musica che non rientrava nei canoni del mainstream doveva necessariamente costruire un circuito – si potrebbe dire, una realtà – alternativo, dove trovare un pubblico. Quella realtà non era stata costruita in un giorno, e dunque si capisce perché alcuni fan fossero, come dire, particolarmente attivi nel cercare, a modo loro, di preservare quell’ecosistema dalle ruspe del mercato.

Al di là dell’inevitabile catalogo di gioie e dolori che ogni storia di successo porta con sé, a tre decenni di distanza non possiamo che celebrare un’epoca estremamente ricca dal punto di vista artistico, e – sperando di non apparire antiquati né moralisti –  rimpiangerne l’etica di fondo, riassumibile in dieci parole: con la musica può capitare di vendere, mai di vendersi. Una posizione romantica e donchisciottesca, soprattutto lontanissima dal nostro presente in cui i cantanti si sfidano a colpi di marketing e spesso si autodefiniscono imprenditori prima che artisti.

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