Musica italiana

Il miracolo di “Nero a metà” di Pino Daniele

Sono passati dieci anni dalla scomparsa del cantautore napoletano, ricordato con un documentario che porta il titolo del suo terzo album, uno dei più apprezzati

  • 4 gennaio, 09:07
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Pino Daniele in concerto nel 2012

  • IPP/Felice De Martino
Di: Patrizio Ruviglioni 

Il miracolo di “Nero a metà” è lo stesso che ha tenuto in piedi tutta la carriera del suo autore, Pino Daniele, che al terzo tentativo, dopo “Terra mia” (1977) e l’omonimo “Pino Daniele” (1979), trovò il capolavoro. E cioè: un disco e di riflesso un’artista come non ce n’erano mai stati – e come non ce ne sarebbero stati più – nella musica italiana, fuori da ogni stereotipo o catalogazione di genere. E difficili, in partenza, da recepire. Eppure amatissimi. Non è una scorciatoia, quindi, il fatto che “Nero a metà”, documentario a tema di Marco Spagnoli e Stefano Senardi – già discografico dello stesso Daniele, qui “conduttore” – nei cinema italiani dal 4 al 6 gennaio, arrivi a dieci anni dalla morte di Daniele: mischia filmati di repertorio, soprattutto live, a testimonianze assortite, come se la sua identità fosse condensata lì, tra l’opera che lo lancia al grande pubblico e il concerto in Piazza del Plebiscito, a Napoli, del settembre 1981, con cui si chiude, una rinascita collettiva dal terremoto dell’Irpinia, che al contempo lo consacra nuova icona della città.

Chiaramente c’è stato altro in lui, a partire da un’ultima fase di pop d’autore, ma il senso è qui. In un album, cioè, leggendario, e in una storia tra rivoluzione di costume, di pensiero, e romanzo di formazione. Avventurosa, peraltro. Perché, appunto, il successo è un miracolo: classe 1955, sesto figlio di un modesto portuale di Napoli, Daniele per trovare condizioni di vita appena sopportabili deve trasferirsi da due zie, prima di cominciare a suonare la chitarra da autodidatta nella città di fine anni sessanta, facendosi le ossa nei locali; ha grande sensibilità, scrive “Napule è” appena 18enne, ma ha anche un carattere non facilissimo e un corpo robusto, tutt’altro che da divo, e più che Santana sembra un nerd incollato allo strumento. Il talento trabocca, ma non è scontato che le etichette siano disposte a recepirlo, perché è assolutamente nuovo: è un cantautore, racconta storie, certo, ma presta più attenzione della media all’apparato musicale, è un fiume in piena che pesca tanto dalla melodia partenopea quanto dal blues e dal jazz statunitense, in un ibrido mai visto prima.

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Musicalmente - Pino Daniele

RSI Cultura 26.08.1983, 13:51

Non è l’unico in quel momento, la città è un crocevia di culture e sono gli anni dei Napoli Centrale, dove tra l’altro entra come bassista, ma è chiaro che ha una scintilla particolare che lo può portare fuori dall’underground. Serve, però, che i pianeti si allineino, ed è ciò che accade: la Emi lo mette sotto contratto nell’incredulità generale, sua in primis, producendo gli album dall’inizio, compreso poi “Nero a metà”, mentre intorno gli si stringe una generazione di musicisti straordinari, di per sé già leader e solisti di livello assoluto, da James Senese a Tony Esposito e Tullio De Piscopo. Con loro forma un supergruppo, con cui definisce il sound di quegli anni di produzione, ma al di là dello spazio lasciato ai loro virtuosismi resteranno tutti, di fatto, al suo servizio, come abbagliati da quel talento così puro. Il risultato è tra i più internazionali e al tempo stesso mediterranei della storia della musica italiana, rompendo l’allora rigido soffitto di cristallo che vedeva relegati a fenomeni locali quegli artisti partenopei che cantavano in dialetto, complice un razzismo dilagante.

Il fatto, però, è che con Daniele comincia proprio una nuova fase della napoletanità, di pari passo con il cinema dell’amico Massimo Troisi. Nel suo caso, tutto passa per una tazzina di caffè. Quella di “‘O ccafè” di Domenico Modugno, che aveva cristallizzato un pensiero fondante nella cultura partenopea dell’epoca, attenta ai piccoli piaceri della vita e a un atteggiamento in stile Pulcinella, il cosiddetto “tirare a campare”. Daniele lo ribalta già da “‘Na tazzulella ‘e café”, esordio-manifesto zeppo, invece, di ispirazioni blues, di rabbia degli emarginati, di chi dice di non bersi più, appunto, il caffè propinate dall’alto – e per esteso, da metafora, le storielle di una vita. Altro che essere contenti con poco: tira una rabbia nuova, di ribellione, struggente, più vicina al riscatto dei neri statunitensi che alla musica napoletana più storicizzata, allora peraltro dedicata all’esaltazione della malavita.

In “Nero a metà” tutto ciò si riflette, per esempio, nell’intensa “Voglio di più”, litania in cui le storie di un meridione e di un meridionale allora 25enne, entrambi feriti dalle disuguaglianze, s’intrecciano. E poi, oltre alle rivendicazioni, un caleidoscopio di suoni – si va dal jazz al funk, fino alla musica tropicale, tanto che sempre nel 1980 aprirà il concerto di Bob Marley a San Siro e il re del reggae resterà estasiato dalla performance – e misto di sentimenti sempre aspri, ma vari e contrastanti. E quindi, quasi in un best of, si uniscono la malinconia di “Quanno chiove” e “Alleria” alla rabbia della stessa “Appocudria”, fino alle cavalcate di blues latino “Musica musica” e “A me me piace ‘o blues”, all’umorismo infuocato di “Nun me scoccià” e “Puozze passà nu guaio”, perfino a placidi pezzi d’amore come “E so cuntento ‘e sta’”.

Un’esplosione di creatività, insomma, che dà dignità alla canzone napoletana e la collega al resto della musica del sud del mondo e degli Stati Uniti, così da rinnovare in maniera radicale l’identità stessa di una comunità. E più di quarant’anni dopo, non c’è da stupirsi se non ha lasciato eredi veri e propri: se c’è una cosa che dice questo documentario è che, appunto, è stato un piccolo miracolo; e a Napoli, si sa, l’unico miracolo destinato a ripeterisi è quello di San Gennaro.

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10 anni senza Pino Daniele

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