Lo scorso settembre Lorenzo Jovanotti ha compiuto 58 anni, è in attività come cantante da quasi quaranta e il nuovo album Il corpo umano, appena uscito, è il sedicesimo in studio: per uno che non ha mai avuto una cifra stilistica precisa – o meglio, ce l’ha, ma sviluppata lentamente perché sempre in evoluzione – e ha costellato il percorso di invenzioni diverse, è un’enormità di tempo che rischia, con i ritmi di oggi, di tagliarlo fuori dal contemporaneo. Il fatto è che Italia non c’è un’altra popstar così, una cioè altrettanto capace di cogliere e incarnare lo spirito del tempo, un cercatore che in questo senso ha tenuto fede all’attitudine da dj con cui aveva cominciato nelle discoteche di Roma: tastare umori della sala e mode, annusare ciò che c’è anche fuori dal paese, farlo proprio; l’attualità è il suo pane.
Esce “Il corpo umano”, il nuovo disco di Jovanotti
Serotonina, Rete Tre 31.01.2025, 08:55
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Un po’ martire e un po’ eroe, allora, ha cambiato pelle varie volte, riuscendo sempre a cavarsela. Amato e odiato a tempi alterni, è passato dall’essere dal ragazzone tutta festa degli Ottanta (il supergiovane di Gimmie five, nemico dei matusa), puro distillato di edonismo, al predicatore terzomondista e cattocomunista dei Novanta (Penso positivo nel 1994, i viaggi in Africa di L’albero nel 1997), fino alla rinascita disimpegnata, da cantautore romantico, di Safari (2008) e Lorenzo 2015 CC. (2015), i dischi che l’hanno lanciato nel mondo nuovo e ne hanno definito l’immagine di micidiale ottimista arrivata a oggi. In mezzo, salite e discese, da quando nel 1990 dicevano che fosse “finito” e, per sua stessa ammissione, ha «attraversato il deserto» verso un pop-rap cosciente, al limbo di metà anni Duemila. Capita: la cornice si sposta, è difficile restarne all’interno.
Ancor più di recente, quando ha prodotto hit in cui l’ottimismo di cui sopra è sembrato scadere a macchietta, mentre un rinnovamento generale della guardia in cima alle classifiche – complice anche la diffusione dello streaming su larga scala – e la vicenda del Jova Beach Party sembravano tagliarlo definitivamente fuori dalla suddetta cornice, con critiche da parte di molti ambientalisti per l’impatto dell’evento che hanno fatto notizia – non tanto per la critica in sé, quanto il fatto che il vecchio Jovanotti avrebbe intercettato quel tipo di sensibilità, non ci si sarebbe scontrato. Insomma, dopo così tanto tempo sulla cresta dell’onda, ci si preparava a percepirlo per la prima volta come un artista vecchio: uno fermo su sé stesso, auto celebrativo, venerato maestro senza slancio. E invece.
E invece Il corpo umano – che peraltro sarà un doppio, ne è previsto un secondo capitolo «prima dell’estate» – è un’altra invenzione delle sue. E mostra, soprattutto, un Jovanotti fin qui inedito. La chiave è in Fuorionda, singolo che non a caso ha anticipato l’album, quando canta che «quel giorno in ambulanza ho capito che si muore». Si riferisce al grave incidente in bici di cui è stato vittima a Santo Domingo nel 2023, che gli ha cambiato la percezione della vita: per la prima volta ha fatto i conti con la morte, un lungo stop e la possibilità di non tornare più a fare a esibirsi dal vivo, lui che ha sempre trasformato il suo corpo in uno strumento a sé (da qui il titolo del disco) e si era trovato ad affrontare una lunga riabilitazione e un enorme punto di domanda (che ne sarebbe stato di lui?).
Il risultato, allora, è l’ennesimo salto avanti, un lavoro strettamente personale e autobiografico in cui, in maniera inedita, si mette a nudo dalla stessa Fuorionda, in cui su un tappeto dance confessa a mezza bocca le proprie malinconie (la figura retorica è quella della preterizione, l’annuncio di non voler dire qualcosa, perché comunque la festa deve continuare, salvo poi dirla lo stesso). Da lì, giù a cascata verso altre zone d’ombra e soluzioni acide, sempre ispirate, come per esempio Celentano, in cui racconta un viaggio in Caucaso dove ha incontrato dei gangster e di come l’incontro con gli altri lo faccia sempre riflettere su sé stesso. Ancora la fame d’avventura, l’evoluzione. La distruzione di una certa retorica. Lati nuovi, ecco, e nuovi linguaggi, ma non per questo c’è da aspettarsi un album pedante, viscerale o intimista: più che altro si sfila dall’ansia di dover rincorrere il proprio tempo, si toglie la maschera del perfetto ottimista e lascia intravedere altro, tra paranoie e consapevolezze scomode (come in Scimpanzé, e non l’aveva mai fatto in maniera tanto nitida).
Ciò non significa una chissà quale L’avvelenata, né battere in ritirata da ciò che è stato ma, anzi, leggerlo da un’altra prospettiva – e il talento è qui. Non è che Jovanotti è diventato pessimista: semplicemente la serenità di rito e l’essere così risolto ora hanno un peso diverso, maggiore, specie per chi si mette in ascolto. Tutto ha più spessore, dalle ballate d’amore melodiche (una sorta di garanzia) agli episodi più storti e interessanti, cioè quelli con la firma di Dardust come produttore. A partire dall’altro singolo, Montecristo, un reggaeton all’italiana ben riuscito, traguardo a cui lui, rispetto ai connazionali, è arrivato per primo. Più in generale, è pescato da ritmi e sonorità latine, scomposti e riletti con l’elettronica, tenendosi a largo da hit più recenti e sfacciate come I love u baby. Non è scontato: in Oh, vita! (2017), alla cui regia c’era il guru Rick Rubin, l’investimento non aveva portato ai risultati sperati, in un ritorno a metà verso l’hip hop vecchia scuola che, di nuovo, aveva fatto scricchiolare la figura di Jovanotti. Stavolta ci sono una densità, un’ispirazione e soprattutto una contemporaneità nuove, però. Oltre a un gusto per le soluzioni genuinamente matte che sembrava essersi assopito. Abbastanza da stupirsi, ecco, non fosse che Jovanotti, da ciclista non pentito neanche dopo l’incidente, ha già dimostrato che una salita corrisponde sempre una discesa, e viceversa. Basta continuare pedalare, anche dopo gli incidenti.