“Alone”, la canzone con cui si apre “Songs of a Lost World”, il nuovo album dei Cure uscito nella notte di Halloween a sedici anni dal precedente, parte con un’introduzione strumentale di tre minuti e venti, prima che la voce di Robert Smith canti che “the fire burned out to ash”, il fuoco è diventato cenere – e quindi dia il via al disco del ritorno in maniera al tempo stesso profetica e paradossale, da una fine.
Non sarà, per peso e innovazione, il minuto e cinquanta di “Pictures of You”, uno dei simboli di “Disintegration” (1989), l’opera che meglio di tutte tiene in equilibrio l’anima più dark della band britannica con quella pop, ma rappresenta lo stesso una dichiarazione: il precedente e molto controverso “4:13 Dream” risaliva al 2008, preistoria rispetto alle regole del mercato e ai gusti di oggi; questo, che già ha raccolto consensi maggiori, è il colpo con cui dicono di esserci, di volersi misurare con il mondo circostante e di non essere, soprattutto, cambiati. Tranne che in un aspetto: nel girare in queste otto camere buie ma accoglienti, come in pieno stile loro, e che peraltro fanno pensare a “Disintegration”, la vena danzereccia delle varie “Friday I’m in Love” e “Just Like Heaven” che ne ha segnato il percorso è però sparita. Quella che era stata a lungo un’allegra disperazione, oggi è solo malinconia.
D’altronde il loro ultimo decennio è stato una lunga prova d’integrità morale, che pur in assenza di nuovi album – e di reali picchi artistici, ripete la critica, da quasi trent’anni – li ha ascritti del tutto nel firmamento dei grandissimi per come hanno gestito il loro nome e la carriera. Nella stasi, infatti, si sono trasformati in uno standard a sé: il nero gotico che si portano dietro dagli esordi, un po’ post-punk e molto personale, è trasceso, diventato senza tempo come il look di trucchi e capellacci di Smith, quasi una maschera da clown che, se volesse, fa intendere che potrebbe sobbarcarsi tutti i dolori dell’umanità; di fianco, si sono imbarcati in tour da tre ore a concerto – è stato lì, tra l’altro, che un po’ alla volta sono comparsi gli spoiler dei nuovi brani – in cui hanno cercato di mantenere basso il prezzo del biglietto e del merchandising, mettendoci sempre la faccia. Nell’unica intervista concessa finora per l’uscita del disco, il New York Times ha definito per questo Smith “il più forte attivista del rock di oggi”, raccontando le sue battaglie con le multinazionali della musica dal vivo.
È tutto connesso, perché da lì è come se fosse nato un vincolo di sincerità con i fan, trasformando tutto in una questione d’onestà intellettuale, compresa la nascita di un nuovo e sofferto disco: se ci è voluto tanto, s’intende, doveva valerne la pena, doveva essere all’altezza di certi standard che in parte, negli ultimi anni, avevano disatteso, ma soprattutto non poteva rappresenta una bugia. E qui, già dal titolo, ecco “Songs of a Lost World”, che fotografa una band che ha tanto da dire, certo, ma pur sempre come un gruppo formatosi nel 1976 e che oggi, anche per questa sua disarmante sincerità, sta fuori da ogni logica commerciale e sente la fine – anche solo materiale, delle cose – vicina.
Non ci sono scorciatoie, non sono tirati forzosamente a lucido, in cerca della hit per far muovere il pubblico ai live che pure, di mestiere, avrebbero potuto comporre. Semmai, sono i Cure che per la prima volta raccontano i sessant’anni e la vecchiaia, che appunto non lasciano spiragli all’anima pop e, salvo qualche flirt con il rock comunque mai andante (“Drone:Nodrone”, quasi un resoconto degli orrori della guerra), suonano eleganti ma lenti, tristi ma dilatati, orgogliosi, con lunghe introduzioni strumentali – più della metà degli otto pezzi dell’album superano i cinque minuti, un’enormità ora come ora – e un senso generale di decadenza, disfacimento, malinconia. Canzoni, insomma, per un mondo che non c’è più, per non sentirsi persi (loro stessi cantano di sentirsi così). Soprattutto, per la prima volta nello spleen ancestrale di Smith compare davvero la nostalgia, a dare un senso a tutto il loro momento, che riguardi ciò che giocoforza si perde nella vita (“I Can Never Say Goodbye”, su un lutto e i rimpianti annessi) o frasi lapidarie come “non ci sono più speranze né sogni”, “niente è per sempre”, fino alla conclusiva e simil-apocalittica “Endsong”.
Ma non è la fine: nonostante le voci sul fatto che “Songs of a Lost World” fosse il loro disco d’addio, poi comunque smentite, la sensazione diffusa è che a sessant’anni inoltrati siano in una nuova, ennesima fase. E che in un mercato che celebra il nuovo e accantona il vecchio, fosse anche cristallizzandolo in quelle stesse pose da dinosauri superstar che Smith combatte con i fatti, ecco, non ci sia mai stato così tanto bisogno di questi Cure.
Il lancio del nuovo disco dei Cure
Il mattino di Rete Tre 31.10.2024, 09:00