1995-2010, è stata la breve vita dei videogame musicali. Poi, quando il genere era appena adolescente, è finito tutto.
Dopo la metà degli anni Novanta, c’è stato un breve momento in cui i giochi musicali sembravano davvero una nuova frontiera per l’industria. E il motivo è che c’era in giro gente come Masaya Matsuura, geniale game designer capace di mettere insieme, con il disegnatore americano Rodney Greenblat, lo straordinario “Parappa the Rapper”. 1996: per il rap era l’anno di “All Eyez on Me”, di “The Score”, ma anche – per chi parla italiano – di “Neffa e i Messaggeri della Dopa” e “Così com’è”. Anche “Parappa the Rapper “era un gioco rap, ma pieno di canzoni che parlavano della vita di tutti i giorni: guidare, cucinare oppure aspettare in fila per il bagno pubblico («did you check / the toilets on the right? / check-check / ch-ch-check!»). Che meraviglia.
Poi è arrivata l’era di “Guitar Hero”. Il più importante gioco musicale della storia è il risultato dalla collaborazione tra un piccolo sviluppatore e un publisher, Harmonix e RedOctane, capaci di produrre nel 2005 il primo gioco musicale con un controller dedicato: non si usava il joypad, ma una chitarrina di plastica. E in fondo si trattava di un semplice rhythm game, come la maggior parte dei videogiochi musicali: si vinceva schiacciando i tasti al momento giusto. Però la perfezione di quel gameplay aveva conquistato tutti, diventando un fenomeno mondiale e facendo guadagnare miliardi ai suoi creatori, e anche all’industria musicale: “Guitar Hero” poteva moltiplicare i download di una singola canzone di cinque, sei, dieci volte. “Guitar Hero: Aerosmith”, del 2008 ha fatto guadagnare alla band più di qualsiasi disco – e stiamo parlando di artisti da 150 milioni di copie. Ai tempi la notizia era stata ripresa da molte testate che avevano sottolineato la stranezza di quella situazione: chissà cosa direbbero oggi che Lily Allen ha dichiarato di guadagnare più dalla vendita di immagini dei suoi piedi su OnlyFans, che dagli streaming di Spotify. Meglio non pensarci, e tornare alla storia dei videogame musicali.
Nel 2006 Harmonix e RedOctane si erano già separate, acquistate rispettivamente da Viacom e Activision. Gli ex partner erano diventati concorrenti: Harmonix aveva creato un nuovo videogame musicale, “Rock Band” e RedOctane portava avanti la serie Guitar Hero. Poi tutto è finito, velocemente com’era iniziato. Io ricordo bene il 2009, l’anno di “The Beatles: Rock Band”. L’anno dell’inizio della fine.
I videogiochi musicali, con la loro combinazione di luci, colori e suoni ipnotici, erano ancora un fenomeno gigantesco, e “The Beatles: Rock Band” sembrava destinato a stabilire nuovi record di vendite. Invece portò molti meno soldi del previsto. Nonostante il lancio pubblicitario milionario. Nonostante l’istantaneo scappellamento delle riviste di settore, che avevano riempito le recensioni di nove decimi, novantapercenti eccetera. Due milioni di copie piazzate, certo. Ma meno di quanto previsto dai manager che avevano deciso di acquistare quella licenza milionaria dagli azionisti della Apple Corps., pompando soldi freschi nelle tasche di Paul, Ringo e Yoko. “Guitar Hero: World Tour” aveva venduto quasi il doppio, solo un anno prima.
Per carità, non era colpa dei Beatles, ma della congiuntura: i videogame musicali erano entrati in crisi. Fase discendente della parabola, per quella che era stata una delle galline più produttive del pollaio/mercato. Tempo di tirarle il collo.
Nel loro lustro dorato, però, i giochi musicali avevano avuto il tempo di aspirare moltissimi spiccioli dalle tasche degli appassionati. Con un modello di business geniale a partire dall’inizio: l’idea di vendere, insieme al gioco, qualcos’altro. Una chitarrina di plastica, ma in alcuni casi perfino un (inutile) surrogato di basso Höfner, e una batteria giocattolo con il logo dei Beatles: totale, se non ricordo male, centocinquanta franchi. Così era arrivato il grosso del guadagno.
Certo, i videogame musicali come “Rock Band” avevano anche lati positivi, come ad esempio il fatto che, se ti volevi divertire, aveva senso solo giocare in multiplayer. E multiplayer voleva dire: quattro persone insieme fisicamente, nella stessa stanza. Nel 2010, il dodicenne medio amava già scannarsi a “Call of Duty” con gente che stava a Singapore, e aveva superato di slancio ogni bisogno di de-virtualizzazione, quindi possiamo considerare “Rock Band” uno degli ultimi tentativi dell’industria videoludica di sostenere il contatto umano.
Altri videogiochi musicali invece hanno contribuito a distruggere subculture pop come quella del karaoke. Lo so, non ci manca, però oggi ricordiamo con un certo romanticismo i locali dove ci si ritrovava a bere e gridare forsennatamente canzoni pop davanti a una macchinetta piena di luci colorate. Le statistiche dicono che dal 2004 in poi le vendite di macchine karaoke sono andate in picchiata in quasi tutto il mondo. E proprio nel 2004 usciva il primo “Singstar”, cioè niente altro che un karaoke per Playstation senza nessuna idea nuova, ma imposto da Sony grazie alla forza del marketing, che aveva permesso di costruire versioni ad hoc per ogni paese.
Qualsiasi fosse la vostra opinione riguardo ai videogame musicali, non c’è dubbio che siano stati una forza trainante per il mercato. E che oggi quell’epoca sia finita.
Certo, qualcuno di tanto in tanto prova a rilanciare la formula di “Guitar Hero” (compresa la stessa Harmonix, dietro Fortnite Festival), ma il presente dell’intersezione tra industria musicale e videoludica non è fatto di giochi: piuttosto, di un interesse sempre maggiore nelle colonne sonore da parte del pubblico (faccenda raccontata meglio qui) e, soprattutto, delle grandi potenzialità che le major della musica vedono nell’offrire licenze di brani musicali per i videogame. Che non sono affatto da sottovalutare.
Per anni, infatti, le software house hanno preferito produrre musica ad hoc per i videogiochi, pur di non sobbarcarsi le difficoltà e i costi legati all’acquisizione di brani già noti: una sola registrazione, infatti, può avere più proprietari e autori, ognuno dei quali potrebbe avere accordi con editori diversi, e le software house devono ottenere l’approvazione di tutti, per evitare grane legali.
Eppure, da almeno un quarto di secolo i videogame possono essere un trampolino di lancio fondamentale per il successo musicale: in alcuni casi sono serviti a moltiplicare le vendite di pezzi già noti (come nel caso di “Song 2” dei Blur finita dentro “Fifa Road to World Cup 98”), in altri a lanciare nel mainstream canzoni assolutamente di nicchia, come nel caso di “Superman” dei Goldfinger, divenuta strafamosa grazie a “Tony Hawk’s Pro Skater” nel 1999. Casi del genere sono fondamenta da cui partire, per capire come far convergere due industrie che per loro natura si rivolgono a un pubblico di giovani, e che potrebbero beneficiare vicendevolmente da una sinergia del genere. Certo, tra le due chi ha più bisogno di una stretta collaborazione tra industria musicale e dei videogame è senza dubbio la prima, che ormai è molto più piccola, se è vero che vale 26 miliardi di dollari contro i 184 globali di quella dei videogiochi. Ma l’opportunità è troppo ghiotta per lasciarsela scappare, per entrambe le parti.