La parabola di Marco Masini colse me e i miei coetanei in modo tangenziale durante l’adolescenza. Allora, che già masticavamo parolacce da tempo, quel «vaffanculo» lanciato a tutta forza nel ritornello dell’omonima canzone ci sembrava un bel modo per provocare, per reagire, per turbare gli adulti. Un brano, col senno di poi, inconsapevole precursore di tempi politici. Sì, ci aveva impressionato. Masini era quello degli insulti nelle canzoni - in repertorio entrerà anche Bella stronza - e a noi bocia delle medie la cosa sembrava piuttosto trasgressiva. Ma il tutto si esauriva lì. Eravamo troppo immaturi e troppo indaffarati a dir parolacce per fare l’esegesi della produzione masiniana.
Eppure, in qualche stanzino del mio cervello, una certa curiosità verso il personaggio dev’essermi rimasta. Forse perché, sempre di sfuggita, sempre nei Novanta, scanalando ero finito sul video di Ci vorrebbe il mare, con i suoi malinconici passaggi in bianco e nero. Fra quegli arrangiamenti di tastiera, memori del decennio precedente, si fa largo come un senso di empatia. Stessa cosa trovo valga per Disperato, tanto che una sera sono andato a cercarne una versione solo voce e pianoforte ma nell’unica che ho trovato, dal vivo, il coro delle fan non mi ha permesso di togliermi lo sfizio.
Ciò che non ho mai compreso è cosa lo abbia spinto a scrivere lo strampalato testo di E chi se ne frega, versione italiana di Nothing Else Matters dei Metallica. Si trattò di un esperimento? Di uno sfogo? Quel giorno l’ispirazione era capricciosetta?
Così, con questo mucchietto di spunti, mi sono approcciato alla chiacchierata che il cantautore fiorentino ha intrattenuto con Damiano Realini nell’ultima puntata de Lo specchio. La domanda sulla cover dei Metallica non gli è stata posta ma, facezie a parte, a risaltare è il modo lucido in cui torna sui momenti bui di vita e carriera. Come quando parla della morte di sua mamma, figura che l’ha ispirato: «L’unico rimpianto che posso aver avuto è che amavo così tanto la musica, e lo facevo come tutt’ora lo faccio per lei, che quella notte lì [quando la madre morì, ndr] sono andato a suonare. Ero a suonare la samba in un locale a Chianciano Terme e quando sono tornato non c’era più». O quando ritorna su quella storia, diffusasi a un certo punto nell’ambiente dello spettacolo, secondo la quale fosse portatore di malasorte: «Sono mode. Il bullismo si basa su queste cose. Prendere in giro una persona si fa prima di tutto per attirare l’attenzione e infatti molti comici lo facevano per far ridere la gente. A quei tempi più ne parlavano, più diventavo oggetto di curiosità». Solo che poi la cosa uscì dagli argini e per la casa discografica diventò difficile mandarlo in tivù per promuovere i suoi dischi.
Se c’è amarezza nelle sue parole, questa è filtrata da analisi razionali. Non imputa a quelle dicerie la fase più difficile della sua carriera: «Il mio modo di fare musica ha cominciato a essere scricchiolante» ricorda. Ammette che in quel periodo ha sbagliato canzoni, parole, armonie, arrangiamenti e atteggiamenti «perché quando il successo ti porta così in alto, non hai la lucidità per mantenerti in quel ruolo».
Quella di Masini è una storia con l’amore. Sostiene che amare è un po’ soffrire e questa sofferenza è ciò «che ti tiene sempre incollato a quella persona, non in modo tossico ma condiviso. L’amore è una cosa ben precisa, unica, che ti porta a essere spesso condizionato da come ti dà il buongiorno e la buonanotte la persona che sta con te e come glieli rendi». Il nobil sentimento è presente anche nel rapporto con la musica, che non ha mai davvero vacillato, nemmeno durante il declino artistico: «Mi sono illuso troppo, perché quando si è giovani si pensa che tutto ciò che è bello possa durare in eterno, compreso l’amore. E l’amore per la mia musica era così forte che ero sicuro che quella grande coppia fosse invincibile».

Ospite: Marco Masini
Lo Specchio 09.03.2025, 19:15