Nel 1979 il punk ha già esaurito la sua spinta. I Sex Pistols, emblema di quella stagione, si sono sciolti in modo disastroso, e il movimento apparso nel ’77 sembra aver perso la furia iconoclasta che ne aveva segnato l’avvento. Non è però passato tutto invano. Quel manipolo di gruppi ha fatto in tempo a influenzare tanti ragazzi britannici che da quell’esperienza musicale traggono ispirazione per fare la loro, di musica. Una musica che mescola immediatezza e approccio fai-da-te del punk con sonorità disco, dub, jazz, kraut-rock, elettroniche e della musica colta. Il tutto confluirà in una serie di dischi che la critica etichetterà come post-punk, termine che spiega già tutto. Una definizione che sopravvive grazie a cicliche riproposizioni di gruppi contemporanei. Vi proponiamo alcuni dei dischi che ben rappresentano il fermento creativo di quel periodo.
Come premesso, l’occasione per parlarne ce la dà “Unknown Pleasures” dei Joy Division, che uscì il 15 giugno del 1979. Quattro ragazzi di Manchester che volevano essere degli altri Clash e invece si ritrovano per le mani il disco portatore di un’estetica nuova, sonora e visiva. La copertina nera con al centro le onde radio di una stella morente diventerà il simbolo del post-punk e una maglietta molto indossata dagli adolescenti. Battute a parte, la band non capirà subito il suo disco. Questo perché a modellarlo è stato un ingegnere del suono di nome Martin Hannett. È lui che in sede di registrazione scompone gli strumenti (la batteria addirittura pezzo per pezzo), li manipola ottenendo ciò che diventerà summa di questo nuovo rock. La chitarra è spettrale, la batteria meccanica, il basso pulsante e la voce di Ian Curtis viene spremuta fino a farne uscire tutto il tormento interiore. Un peso emotivo che non riuscirà a sopportare, ma questa vicenda merita un racconto a sé. “Unknown Pleasures” trasforma nei Joy Division una rock band che rischiava di scivolare nel girone del Qualunque.
In Gran Bretagna, il 1979 è l’anno dell’ascesa a premier di Margareth Thatcher. Si respira aria di liberismo. Si trasformerà in vento impetuoso con la presidenza Reagan negli USA e addirittura in tempesta nello stesso Regno Unito, con scioperi e lotte sindacali che però, paradossalmente, finiranno per rafforzare la “Lady di ferro”. È un dato storico che mettiamo lì per dare un taglio diverso a questa rassegna di dischi. Se la Manchester del grigiore post-industriale si rifugia nei cupi solchi di “Unknown Pleasures”, altrove la risposta è più vivace, pure incendiaria.
Forse non è un caso che il Pop Group di Mark Stewart nella scaletta di “Y” abbia un titolo come “Thief of Fire”. Qui Pop va interpretato come “popolare” da una prospettiva politica, più che musicale. Lo stile del Pop Group è improntato sul free jazz e sul funk, dove quest’ultimo è da intendersi nella sua forma più essenziale e va a lambire territori tribali. La scelta di affidare la produzione a un personaggio eminente del dub come Denis Bovell è parte significativa di questo manifesto artistico, mentre il compito di tracciare la via “ideologica” della band è affidato al cantante, Mark Stewart. Così, mentre il disco trattiene la tensione nei suoi rimbombi, Stewart lancia le sue liriche rivoluzionarie: “i valori occidentali non significano niente per lei” – canta in “She Is Beyond Good and Evil”. Critica al consumismo e spirito internazionalistico sono prevalenti nella discografia del Pop Group.
Bordate caustiche alla società britannica di fine Settanta, così attenta a mascherare la sua decadenza dietro un velo di perbenismo, arrivano anche da un punk, o forse dovremmo dire da un ex punk. Difficile fare separazioni nette nella figura di John Lydon, l’ex Johnny Rotten cantante dei Sex Pistols. Nel 1979 esce anche “Metal Box”, secondo lavoro dei Public Image Limited, che alla voce possono contare proprio su Lydon. Il quale nel disco precedente si era ripreso la sua immagine pubblica, denunciando nel brano intitolato per l’appunto “Public Image” lo sfruttamento subito dal manager dei Pistols, Malcolm McLaren, uomo dalle intuizioni geniali ma dall’indole furbetta. “Metal Box” è esattamente ciò che il titolo promette: tre dischi da 12 pollici contenuti in una scatola metallica. Dentro si scatena lo spirito folle di questo complesso: sotto le litanie ossessive di Lydon si sviluppa un suono minaccioso e acido allo stesso tempo. Una patina psichedelica – meglio: psicotica – si posa su suoni industriali, come di metallo tagliato e fresato. Nel ventaglio sonoro troviamo ritmi disco music e, ancora una volta, le alchimie da studio del dub giamaicano. Menzione speciale per Jah Wobble, che firma ogni pezzo con linee di basso capaci di marcare nel profondo. Questa collisione di generi si esalta in “Death Disco”, canzone scritta da Lydon per la madre da poco scomparsa in cui i Public Image si concedono anche il lusso di citare “Il lago dei cigni” di Čajkovskij.
Se fin qui abbiamo sondato territori freddi, inquieti, disturbati a tratti, adesso possiamo concederci un’escursione nel pop. Certo, un pop figlio delle stagioni fin qui analizzate ma pur sempre una musica più improntata sull’orecchiabilità. Nell’agosto del 1979 esce “Drums and Wires”, terzo album degli XTC. Ci prendiamo una licenza, perché in realtà sconfiniamo nella New wave, ossia un genere non ostico all’ascolto, disinteressato a figurare avant-garde ma in grado di offrire soluzioni originali e stimolanti per le orecchie. Esperti in materia sono Andy Partridge e Colin Moulding, la coppia su cui poggiano gli XTC, definiti anche i Lennon-McCartney del dopo punk. Il merito di questi due musicisti è aver ridato lustro alle canzoni belle da ascoltare e – perché no? – da canticchiare. L’ingegno di Partridge e Moulding risiede proprio nel saper dare uno spessore compositivo ai loro pezzi senza negare il piacere di belle melodie.
Dover fare delle scelte è doloroso quando si tratta di artisti e dischi. Perché qualcuno avrà da obiettare che mancano questi o quelli. Istanze ricevibilissime. Per cercare almeno in parte di smorzare sul nascere le polemiche, facciamo un’ultima, rapida carrellata di dischi post-punk usciti nell’anno in esame. A cominciare da “154” degli Wire, titolo che deriva dal numero di concerti tenuti dalla band fino a quel momento. Gli Wire sono una delle più compiute espressioni del coraggio artistico di quella fine decennio. In tre anni (e altrettanti dischi) passano da un punk essenziale a canzoni che inglobano elettronica e suggestioni psichedeliche.
Segnaliamo poi “Cut” delle Slits, gruppo composto prevalentemente da musiciste, a conferma dell’innovazione portata dal punk rispetto alla figura della donna, che prende in mano strumenti e band senza farsi il benché minimo problema e compete da pari con i colleghi uomini. Le Slits fanno parte del giro del Pop Group, e come loro ricorrono ai servigi di Denis Bovell per produrre il loro album. Nel quale, fra suoni taglienti e voglia di anarchia, c’è spazio pure per una rilettura del classico soul “I Heard It Through the Grapevine”.
Nel ’79 i Cure debuttano con “Three Imaginary Boys”. Robert Smith e soci sono ancora lontani dall’essere il gruppo di riferimento del dark: il disco è pop-rock nell’essenza e legato al periodo punk. I Fall escono con “Dragnet”. Concittadini dei Joy Division, a capitanarli è il fenomenale, in tutti i sensi, Mark E. Smith, che declama i suoi testi su una musica perennemente a rischio collasso nervoso. I Cabaret Voltaire (nome ispirato al noto locale zurighese) gettano il loro seme per far germinare la techno che sarà, mentre i multietnici Specials riportano alla ribalta lo ska giamaicano e lo stile mod. Per dire che c’è davvero tanto da ascoltare, e per tutte le orecchie.
Queste band, e i loro dischi, a loro volta apriranno la strada alle successive ondate di musicisti, e tutte insieme queste generazioni daranno un contributo fondamentale alla nascita della musica indipendente.
E che ne è dei gruppi punk in quel 1979? Limitandoci a tre gruppi di punta, detto dei Sex Pistols e di John Lydon, i Clash pubblicano verso fine anno “London Calling”, disco assai celebrato che fa da ponte fra il punk e ciò che arriva dopo, mentre i Damned espandono le loro sonorità in “Machine Gun Etiquette”. A ben guardare, la banda del ’77 qualcosa da dire ancora ce l’aveva.
Brian Eno
Voi che sapete... 12.06.2024, 10:00
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