Quando si parla di grandi chitarristi rock di solito i nomi che saltano fuori sono sempre quelli: Jimi Hendrix, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimmy Page, Eddie Van Halen, e via schitarrando. Quasi mai viene citato il nome di Jaime Royal Robertson, meglio conosciuto come Robbie Robertson. Ed è un peccato, quasi un'ingiustizia, perché questo canadese di origini Mohawk, cresciuto nella riserva indiana delle Sei Nazioni, musicista dall’età di 15 anni, con la sua chitarra ha scritto molte pagine importanti della storia della musica rock.
I primi passi sono all’insegna del rock’n’roll, primo grande amore di Robbie. Comincia a esibirsi presto e non ci vuole molto a capire che il ragazzino ha talento. La prima grande occasione arriva nel 1958 con l’ingaggio da parte di Ronnie Hawkins, all’epoca uno dei più celebri cantanti Rockabilly in Canada. Con gli Hawks, il gruppo di supporto di Hawkins, si fa le ossa: suona in centinaia di concerti e soprattutto entra in contatto con quelli che diventeranno i futuri membri della Band. Prima incontra Levon Helm (batteria), poi è il turno di Rick Danko (basso), di Richard Manuel (tastiere) e infine di Garth Hudson (polistrumentista). Si trovano bene, tanto bene che a un certo punto, alla fine del 1963, decidono di salutare il buon Ronnie e di mettersi in proprio. Vengono notati da un altro cantante piuttosto famoso all’epoca. Li ingaggia come band di supporto e li porta con sé in tour. Robbie e soci sono abituati a gestire situazioni strane in concerto - la gavetta con Ronnie Hawkins ha aiutato, eccome - ma all’inizio sono sorpresi anche loro dall’ostilità ostentata da un’ampia fetta del pubblico. Suonano male? No, anzi: sono bravi, non c’è dubbio. Eppure, in un certo senso, loro malgrado rappresentano una parte del problema. La loro colpa è quella di suonare strumenti elettrici, un’eresia per i fan della musica folk, che, come amanti traditi sul più bello, non perdono occasione per contestare furiosamente e sonoramente il cantante piuttosto famoso per quella scelta scellerata (tutti gli altri ringraziano ancora adesso sentitamente la determinazione del signor Zimmermann, noto ai più come Bob Dylan, nel portare avanti la sua svolta elettrica). In questa pagina storica della carriera di Dylan e della musica americana la presenza della Band è fondamentale. È un legame solido, che porterà a numerose collaborazioni nel corso degli anni.
In una pausa del tour mondiale del ’66 Dylan è vittima di un brutto incidente in motocicletta che lo costringe a un lungo periodo di pausa. Se ne sta rintanato in un paesino a nord di New York (che di lì a poco diventerà famoso in tutto il mondo, Woodstock). Invita la band a raggiungerlo e durante la riabilitazione ricomincia a suonare e registrare, sia nel seminterrato di casa sua che nella grande casa rosa che hanno affittato Robbie e gli altri. I risultati di questa vacanza forzata sono tre:
Il gruppo adotta definitivamente il nome “The Band”
Le registrazioni nel seminterrato della casa di Dylan saranno pubblicate diversi anni dopo, nel 75, come “The Basement Tapes” (semplicemente la più bella raccolta di “provini” della storia del rock)
I brani registrati nella grande casa rosa finiranno in un disco di debutto folgorante, “Music from the Big Pink”, una manciata di canzoni aliene e familiari allo stesso tempo, lontanissime dagli eccessi della psichedelia e del rock dell’epoca. Il primo disco della Band pubblicato nel 1968 dà un contributo determinante alla definizione della cosiddetta “Americana”, l’etichetta-cappello in cui ritroviamo tutti i generi americani al 100%, dal folk al rock, passando per il country, il blues e il soul The Band - The Weight
In tutto questo turbinio creativo uno dei punti fermi è proprio Robbie Robertson con la sua mano sicura, decisa, ispirata, sia sul manico dell’amata stratocaster (mai una nota di troppo! Non per niente Dylan lo definisce il più grande chitarrista-matematico della storia), che nella scrittura di buona parte dei brani e in generale nella gestione della band.
Il disco di debutto della Band è giustamente considerato un capolavoro, ma anche i successivi non scherzano, a partire proprio dal secondo del 1969, intitolato semplicemente “The Band”, che contiene alcune delle composizioni più memorabili di Robertson (“The Night They Drove Old Dixie Down” e “The Unfaithful Servant”, per citarne solo un paio).
Dopo l’album “Islands” del 1977 Robbie giunge alla conclusione che quasi vent’anni di dischi, concerti e di vita on the road sono sufficienti. È tempo di chiudere e di passare ad altro. E qual è il modo migliore? Semplice, chiamiamo un po’ di amici e ci facciamo una bella suonata
all together. Già che ci siamo, chiamiamo anche quel piccoletto con la barba e gli facciamo riprendere la serata. Risultato finale? “The Last Waltz”, un altro capolavoro, sia per la musica che per il film (non guasta il fatto che gli amici siano Bob Dylan, Joni Mitchell, Dr John, Neil Young, Eric Clapton, Muddy Waters, Van Morrison, Ringo Starr e tanti altri di quella “risma”, e che il piccoletto dietro la cinepresa si chiami Martin Scorsese).
Dopo The Last Waltz, Robbie Robertson da solista si lancia in un percorso musicale più introspettivo, più profondo, sicuramente meno appariscente ma sempre di grande qualità. Non solo, l’esperienza col piccoletto barbuto gli è piaciuta assai, tanto è vero che un’importante fetta della produzione musicale di Robertson sarà legata ai lavori dell’amico Martin Scorsese, che così rende omaggio al grande musicista.
“La musica di Robbie ha avuto un ruolo importante nella mia vita e in quella di milioni di altre persone in tutto il mondo. La musica della Band e la sua da solista sembravano venire dai luoghi più profondi del cuore di questo continente, con le sue tradizioni, tragedie e gioie”.