Nuovi Studi

Cooling Poverty, così le temperature eccessive creano disparità

In un mondo sempre più caldo la difficoltà di trovare refrigerio genera una nuova e rilevante dimensione della povertà  

  • 25 agosto, 08:00
  • 26 agosto, 09:24
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Temperature insopportabili

  • Keystone
Di: Clara Caverzasio 

«Il caldo estremo è il disastro meteorologico più letale».
Così titolava un articolo di Science a fine luglio 2024. Centinaia di migliaia di persone in tutto mondo muoiono ogni anno a causa delle temperature eccessive. Nella sola Spagna a inizio agosto si contavano già oltre 750 decessi per il caldo dall’inizio dell’anno, più che per qualsiasi altro tipo di fenomeno meteo estremo.

Perché, è un dato di fatto, le nostre città, organizzazioni e persone si sono evolute adattandosi a specifiche condizioni climatiche; ma oggi le nostre infrastrutture non sono pronte ad affrontare le ondate di calore, o altri eventi estremi legati al cambiamento climatico, come le alluvioni. L’aumento delle temperature medie con le relative ondate di calore si sta ormai verificando in tutto il mondo, compresa la Svizzera italiana, dove anche questa estate sono scattati diversi allarmi canicola e alluvioni. E allora, c’è chi si dota di ventilatori o condizionatori, chi può va al lago, o sale in montagna o si reca in un parco alla ricerca di un po’ di frescura, oppure parte in vacanza. Ma non per tutti è così semplice, soprattutto fuori dalla Svizzera.

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Col pianeta che si scalda, infatti, il fresco diventa un lusso, così che le temperature record e il riscaldamento globale stanno dando vita a una nuova disuguaglianza sociale: la cooling poverty, ovvero la povertà di raffrescamento.
Non a caso in questi anni si stanno sviluppando nuovi indici per valutare le condizioni di stress climatico della popolazione. Sono nate nuove definizioni, come appunto la cooling poverty e la systemic cooling poverty, di cui si occupa anche Antonella Mazzone, ricercatrice sui temi del caldo estremo, affiliata all’Università di Oxford e autrice di uno studio pubblicato su Nature Sustainability, intervistata sul numero di luglio di Le Scienze (Col pianeta che si scalda il fresco diventa un lusso, pp.10-11).

«La systemic cooling poverty – spiega Mazzone – nasce dall’esigenza di capire dove come e quando le persone e le organizzazioni si trovano in una situazione di vulnerabilità al calore eccessivo. In un paper pubblicato lo scorso settembre su Nature, abbiamo dimostrato che ci sono tre tipi di infrastrutture – fisica, sociale e intangibile – che ci forniscono tre diversi tipi di protezione dal calore eccessivo senza ricorrere alle tecnologie che consumano energia. Quando mancano questi tre pilastri, una persona si trova ad altissimo rischio di soffrire di patologie legate a un’esposizione eccessiva al calore. Tra le infrastrutture fisiche passive ci sono le aree verdi o blu che sfruttano le soluzioni naturali per incrementare ventilazione e ombreggiamento. Tra quelle sociali, le relazioni familiari o amicali, a cui una persona anziana con disabilità può appoggiarsi, o per esempio gli spazi verdi e le piazze nelle città dove le persone possono socializzare e trovare refrigerio. Infine ci sono le infrastrutture intangibili che includono l’educazione l’informazione e la conoscenza, cioè come le persone e le comunità mettono in atto comportamenti per proteggersi dal calore senza sistemi di condizionamento dell’aria».

Studi come quelli di Antonella Mazzone hanno l’obiettivo di fornire degli indici con i quali le amministrazioni dei vari centri urbani e rurali possano valutare il rischio termico, analizzando un determinato territorio per capirne la vulnerabilità a determinati eventi, come appunto le ondate di calore estreme.

«Attraverso gli indici che stiamo costruendo, ogni quartiere avrà una sorta di punteggio e grazie a questa analisi sarà possibile capire di che tipo di interventi e investimenti avrà bisogno un determinato territorio. Dai risultati dell’analisi degli indici di povertà del raffrescamento sapremo evitare i rischi a breve e lungo termine causati dalle ondate di calore, che vediamo essere sempre più prolungate e sempre più intense. (…) L’obiettivo è creare un sistema integrato per capire come gli ecosistemi urbani e rurali possono diventare più resilienti».

L’intento è anche quello di fornire delle linee guida e delle alternative valide all’uso di tecnologie come l’aria condizionata, che hanno un forte impatto ambientale in quanto aumentano i consumi energetici e il riscaldamento globale (e portano al rischio di un boom delle emissioni oltre che delle disuguaglianze). Il comfort termico infatti si può raggiungere in diversi modi.

«Dobbiamo guardare a tutto quello che possiamo fare proprio per non usare questo tipo di tecnologia. Penso per esempio al nostro modo di vestire, all’alimentazione, alle nostre abitudini di raffrescamento oppure al colore delle superfici urbane degli edifici, delle strade. Per questo… l’approccio al cooling è multi-materiale, multilivello e molti-spaziale».

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Systemic Cooling Poverty

La cooling poverty, questa nuova e rilevante dimensione della povertà che sta chiaramente emergendo in un mondo in via di riscaldamento, è evidente soprattutto nei paesi in via di sviluppo o tradizionalmente già molto caldi, come il Brasile. E proprio quest’anno la Mazzone ed altri ricercatori hanno pubblicato su The International Journal of Justice and sostenibility uno studio che esamina i fattori che contribuiscono alle disuguaglianze e alla giustizia termica, in particolar modo nelle favelas di Rio de Janeiro. Una ricerca che ha permesso di identificare le categorie sociali più vulnerabili rispetto al calore estremo, come gli anziani, i disabili, le persone di colore o lgbtqi+ e cosi via, portando alla luce una serie di svantaggi accumulati che portano queste fasce ad allontanarsi dal comfort termico. Esse infatti «non solo non hanno accesso ad acqua potabile, ma hanno anche abitudini alimentari poco salutari per via dei costi sempre più proibitivi di frutta e verdura fresche. Se alle carenze infrastrutturali si aggiungono i problemi legati alla discriminazione sociale, allora persino rifugi freschi naturali come parchi e laghi, o artificiali come i centri commerciali, possono essere luoghi ostili per certe categorie, rappresentando un vero e proprio problema di giustizia termica».

Una situazione che a quelle latitudini è già estrema – così come in Asia e in Africa, dove l’aumento dell’intensità, della durata e della frequenza delle ondate di calore rappresenta una minaccia diretta per la salute fisica – e di non facile soluzione, ma che diventerà sempre più globale: basti pensare che entro il 2050 nel mondo il numero di anziani, compreso tra i 177 e i 246 milioni in più rispetto a oggi, potrebbe essere esposto a un calore pericolosamente acuto (come dimostra uno studio del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia).

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La cooling poverty chiama in causa in particolar modo i decisori politici, gli amministratori e gli urbanisti, che però anche in questa nostra parte di mondo sono stati fin qui abbastanza restii ad adottare misure sufficienti per contrastare per tempo le conseguenze di questo fenomeno ormai globale, peraltro annunciato e previsto da anni, avendone per di più la possibilità. Basti vedere quante nuove piazze o nuovi edifici o strade anche da noi sono ancora pensati solo in chiave cementificatoria e senza un briciolo di verde. Ma qualche piccolo esempio virtuoso, anche se contingente, comincia a presentarsi: come l’iniziativa madrilena “Rifugiati nella cultura” rivolta non solo ai turisti ma soprattutto a tutti coloro che non possono permettersi di allontanarsi dalla città arroventata. «Alcune biblioteche, cinema e musei – leggiamo sul sito di Euronews – offrono visite guidate gratuite, sconti o spettacoli nelle ore più calde della giornata: il Museo del Prado per esempio offre spettacoli gratuiti di flamenco, e il Círculo de Bellas Artes, un centro d’arte no-profit, è diventato il rifugio climatico preferito quest’estate a Madrid. La sua ex sala da ballo è stata trasformata in un’oasi verde con più di 300 piante: la temperatura è mantenuta a 27 gradi costanti, un sollievo se si considera il caldo torrido dell’asfalto della città». (euronews.com)

Come dire: le soluzioni ci sono, e anche semplici, prima fra tutte il verde urbano, componente essenziale delle città più sostenibili e resilienti, cioè capaci di resistere e adattarsi ai cambiamenti in corso. Perché le piante sono lo strumento più efficace, inclusivo e democratico per contenere l’effetto cappa delle città. Dove ormai vive più del 70% della popolazione europea e il 50% a livello mondiale (ma sarà il 70% nel 2030). Ecco perché, secondo António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, «Le città sono il luogo in cui la battaglia per il clima sarà in gran parte vinta o persa».

Come scrive il celebre botanico e neurobiologo vegetale Stefano Mancuso nel suo ultimo Fitopolis. La città vivente (Laterza 2023), da come immagineremo le nostre città nei prossimi anni dipenderà una parte consistente delle nostre possibilità di sopravvivenza. Il riscaldamento globale può cambiare in maniera definitiva l’ambiente delle nostre città e costituire proprio quella fatale mutazione delle condizioni da cui dipende la nostra sopravvivenza.

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