Per rendersene conto, basterebbe scivolare con lo sguardo sugli scaffali delle pubblicazioni nelle edicole ferroviarie oppure tra i tanti dépliant che declamano corsi di meditazioni, cicli yoga o visite al tempio indiano più vicino: anche il silenzio ormai è diventato un prodotto di consumo che si vende con tanto di codice a barre e che ci invita a ridisciplinare il nostro rapporto tra il suono e il silenzio, tra la parola e la sua assenza. Tanto che oggi può sembrare un paradosso ma non si è mai parlato così tanto del silenzio come in questo periodo. Un blablabla continuo con tutta la retorica di cui si può ammantare un “elemento” che resta così irriducibilmente ambiguo, sia a livello ambientale che a livello mentale, in ogni sua forma di comunicazione.
Perché in fondo il silenzio è versatile e spregiudicato, visto che può fare ruotare gli opposti e unire, con significati diversi, chi si siede agli antipodi di uno stesso tavolo. Come capita, per esempio, con un carnefice e una vittima. Là dove c’è il silenzio di chi non vuole confessare un crimine e, a poca distanza, il silenzio di chi ha paura di non essere creduto.
E che il silenzio non possa essere ridotto a una cartolina turistica o a sinonimo di pace lo testimonia la sparizione improvvisa di voci e rumori che ci può trascinare in luoghi spettrali dove la meraviglia di una contemplazione lascia il posto all’angoscia del più profondo spaesamento. A maggior ragione se si pensa che il silenzio non è mai un guscio vuoto e forse mai come nella famosa composizione 4’33’’ di quel genio della musica sperimentale che è stato John Cage ha trovato piena espressione artistica. L’anno è il 1952 e per tutta la durata del brano non c’è nessuno che suoni uno strumento così da garantire le migliori condizioni d’ascolto a tutto il resto, e cioè, alla vasta gamma di suoni presenti nell’ambiente in quel momento.
Del resto, se è la situazione a fare la storia, la stessa storia può essere piena di queste piroette anche quando voltiamo lo sguardo all’indietro verso la sala cinematografica. L’ha detto un regista come Robert Bresson: è il cinema sonoro che ha inventato il silenzio, perché durante il periodo del cinema muto le proiezioni erano sempre accompagnate da musicisti che suonavano dal vivo e da un imbonitore che intratteneva, leggendo le didascalie sullo schermo a un pubblico per lo più analfabeta. Poi, è arrivato il sonoro e sullo schermo si è potuto sentire il silenzio.
Quel silenzio che invece di fronte a fatti o visioni violenti presenti nella realtà diventa un tradimento se non viene spezzato. La mafia uccide, il silenzio anche. Era uno slogan di qualche anno fa e puntava il dito contro quel silenzio omertoso che diventava complicità e che aveva un prezzo molto alto da pagare. Del resto, in un mondo dove tutto è in vendita, il silenzio ha un costo perfino se scendiamo nella nostra vita quotidiana. Là dove il frastuono è talmente costante e ovunque che poi tutto ciò che lo cancella acquista un valore economico che paghi. Che sia per le carrozze del treno silenziose, per le case o residence in ambienti esclusivi o per le cuffie che isolano dal mondo, be’, il silenzio non è un optional gratuito, ma anzi, un fattore che aumenta la tariffa.