«L’abito non fa il monaco». «Le apparenze ingannano». «Non è tutto oro quello che luccica». Chi avesse pazienza di scavare nel repertorio dei proverbi e dei modi di dire, scoprirebbe che sono numerosi quelli che raccomandano la diffidenza. Il sapere popolare da sempre invita a non fermarsi all’esterno, a non prendere per buono ciò che si vede, a scavare più a fondo. Ma al di là di questo invito che può guidarci nella vita di tutti i giorni, è stata la storia della scienza a dimostrarci che le apparenze ingannano il mondo non era, come suggerivano l’evidenza o il senso comune. Da millenni la comunità degli scienziati non si stanca di esortarci a non credere a quello che sembra, perché è proprio lì che si nasconde l’errore.
La diffidenza verso le apparenze sembra oggi avere preso in ostaggio l’opinione pubblica e il complottismo è diventato una delle chiavi per interpretare il mondo. I don’t drink it, dicono gli inglesi, “non me la bevo”. Nel mondo della comunicazione incontrollabile, delle fake news, tutti sono portati a dubitare.
Poco importa il cospiratore che nel suo artificio e nella sua macchinosità, la congettura che egli agita violi il principio del “rasoio di Occam”, che suggerisce di non moltiplicare inutilmente gli enti e di partire sempre dalle spiegazioni semplici. «Questa è l’era del complotto», diceva lo scrittore americano Don DeLillo in epigrafe al suo romanzo Cane che corre. Nella gigantesca cassa di risonanza del web che talvolta sembra evocare il Paese di Acchiappacitrulli delle avventure di Pinocchio, la dietrologia impera e prendere abbagli, cercare conferme, stabilire correlazioni illusorie, trarre false conclusioni, additare presunti colpevoli è alla portata di un click. Ma prima che il dubbio sistematico ricadesse a livello popolare, la comunità scientifica lo aveva eletto a criterio della propria indagine e tale sarebbe rimasto per molti secoli.
Nel II secolo dopo Cristo, Claudio Tolomeo guardò in aria e decise che il sole, la luna e i pianeti giravano intorno alla Terra che stava fissa al centro. Era l’opinione che già nei secoli precedenti era stata sostenuta da Aristotele. Ma il grande astronomo di Alessandria d’Egitto consolidò questa concezione che con il suo nome sarebbe stata chiamata “tolemaica”. L’umanità l’avrebbe presa per buona per 2000 anni, fino a che un astronomo polacco che si era laureato in Diritto canonico all’Università di Ferrara, si diede da fare per dimostrare che il sistema geocentrico, con la Terra al centro, era sbagliato. Fu lui il propugnatore del sistema eliocentrico, che al centro collocò invece il sole. Da allora la fisica e l’astronomia avrebbero compiuto molta strada, fino a giungere alla teoria della relatività e alla fisica quantistica, che una cosa hanno in comune: vanno contro l’evidenza, smentiscono ciò che appare.
Ma le apparenze avrebbero ingannato l’uomo anche in ciò che era persuaso di conoscere meglio di ogni altra cosa. Nosce te ipse, “conosci te stesso”, era scritto su l’Oracolo di Delfi. Per millenni l’uomo si era speso, spesso crudelmente, nell’esplorazione della propria interiorità, fino a quando, alla fine del XIX secolo, un medico viennese suggerì che qualcosa non funzionava. La rivoluzione della psicoanalisi di Sigmund Freud si fonda sull’idea che la coscienza cui l’io è aggrappato non è che la punta emersa dell’iceberg, la manifestazione superficiale di una realtà psichica più profonda l’inconscio. Cercando di capire i disturbi nevrotici, Freud scoprì un’area della vita della psiche di cui l’uomo non è consapevole. Ma è proprio lì che agiscono pulsioni e conflitti in cui la coscienza ha depositato esperienze traumatiche che non era emotivamente in grado di accettare. L’uomo si troverebbe dunque governato da ciò che non sa il rimosso. Un’esperienza quanto mai frustrante per noi che ci eravamo rappresentati come esseri intelligenti e che anzi, come aveva sostenuto Cartesio, potevamo dire di esistere perché pensiamo. Dunque la fisica e la psicoanalisi ci hanno dimostrato che le cose non stanno come sembra.
«C’è una frase molto bella di Albert Einstein che troviamo spesso scritta sulle magliette che indossano i nostri ragazzi. La frase così recita: “La cosa più incomprensibile del nostro universo è che esso è comprensibile”. Ecco, il nostro universo è effettivamente un messaggio, e un messaggio contiene dell’informazione. Necessariamente per trasmettere un’informazione c’è la necessità di utilizzare un linguaggio. Ora, il linguaggio che utilizza l’universo sembra proprio essere la matematica. Di questo se n’era già accorto Galileo nel Seicento, quando nel Saggiatore scrive che il mondo è scritto in lingua matematica. In effetti la matematica al momento è il mezzo migliore che conosciamo per rappresentare e spiegare il nostro universo in modo simbolico, perché è il più adeguato, perché è un linguaggio dotato di una struttura logica interna estremamente severa, vincolante e priva di qualunque ambiguità interpretativa (...). Negli anni ‘60 del Novecento, i fisici hanno cominciato a occuparsi seriamente di buchi neri, cioè di questi cadaveri delle stelle già previsti dalla relatività di Einstein, e hanno cominciato a occuparsene utilizzando tecniche di meccanica quantistica e relatività generale, utilizzando dunque apparati matematici molto solidi, privi di ambiguità, che hanno portato a conclusioni estremamente interessanti ed estremamente sicure proprio per la solidità dell’apparato matematico che le ha gestite. E queste conclusioni sono molto, molto interessanti, ma controintuitive. Ad esempio, la più importante è che quando noi scaraventiamo dell’informazione dentro un buco nero, questa non va a occupare tutto il volume interno del buco nero, ma si deposita sulla sua superficie esterna e rimane confinato nella sua superficie esterna che si chiama l’orizzonte degli eventi. A seguito di tali scoperte, i fisici hanno iniziato a sviluppare queste idee cercando di applicarle all’intero universo e sono pervenuti a delle conclusioni interessantissime, che sono appunto oggetto di questo principio olografico, del fatto cioè che il nostro universo probabilmente è un ologramma. Ciò che noi percepiamo dell’universo, la sua tridimensionalità, lo spazio, gli oggetti nell’universo probabilmente sono degli ologrammi, quindi non sono reali, sono fittizi, frutto di un’informazione che abita ai confini del nostro universo, su una superficie che lo avvolge. Ora, si capisce l’importanza di questa idea, perché essa mette in discussione il concetto stesso di realtà, ma soprattutto i concetti di spazio e di tempo che sono i concetti portanti della nostra percezione del reale. ».
Prof. Fabio Truck, fisico teorico e docente universitario
E veniamo ora all’altra scienza che ha imposto all’uomo di rivedere non la propria rappresentazione del mondo, ma quella di se stesso: la psicoanalisi.
«Sia l’Interpretazione dei sogni di Freud sia l’Origine delle specie di Darwin hanno entrambi dimostrato che esistono più cose in cielo e in terra di quanto la nostra mente immaginava, come diceva Shakespeare. In maniera diciamo più prosaica, significa che sia Darwin che Freud hanno fatto capire che per comprendere il fenomeno umano e anche le vicende della vita quotidiana bisogna far riferimento a uno spazio di spiegazione, uno spazio mentale molto più grande di quello che si credeva. Nel caso di Darwin il tema è il tempo profondo e la biodiversità per cui è chiaro che poi, soprattutto arrivando al percorso dell’umanizzazione, scopriamo che degli eventi non sono successi in Africa milioni di anni fa sono decisivi per capire quello che succede oggi alla specie umana. Per Freud in un certo senso è la stessa cosa, solo a livello ovviamente psichico, che però ha anche in Freud una profondità evoluzionista molto forte, di cui forse lui stesso non si era reso conto (...). Solo oggi riusciamo a fare una storia della scienza dell’epistemologia del XX secolo basata su questo principio, perché esiste il parallelismo delle ricerche di Freud e di Darwin. Poi abbiamo gli sviluppi della fisica quantistica che sono ancora più radicali da questo punto di vista. C’è Rovelli, il grande fisico dei nostri giorni, dice “La realtà non è quella che ci appare”. E questo però è un atteggiamento che porta alla creatività umana, perché ci rendiamo conto che per capire chi siamo dobbiamo allargare fortemente il nostro discorso, e che il cosmo è una rinascita di una visione cosmologica molto ampia e molto radicale, in cui noi però possiamo operare, agire e conoscere, anche se coi limiti della nostra specie, naturalmente. La cosa paradossale è che nella scienza del XX secolo, partendo da un ambito di realtà molto ristretto come quello della razionalità e nello stesso tempo della microfisica, abbiamo allargato le nostre esplorazioni di scale della realtà anche molto lontane da noi. Quindi, diciamo i nostri mezzi sono cognitivi, sono legati alla nostra biologia, alla nostra specie. Il lavoro e la passione che ci mettiamo riusciamo anche intercettare tante dimensioni del mondo che prima erano nascoste. Più insistiamo sul fatto che la nostra conoscenza è legata al corpo e alla mente umana e più riusciamo a capire anche la validità di certi strumenti, che certamente non possono guardare il mondo dall’alto, ma entrano in relazione con la nostra esperienza quotidiana».
Prof. Gianluca Bocchi, epistemologo e docente universitario
Non è come sembra
Laser 28.01.2025, 09:00
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