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Memepolitica

Trump, Putin e tutti noi in mezzo

  • 2 agosto 2023, 09:09
  • 31 agosto 2023, 12:05
Instagram Carpe Donktum.jpg
Di: Michele R. Serra

Il 7 dicembre 2021, l’account Twitter @ukraine posta un meme sui vari tipi di mal di testa, derivato dal classico “Types of Headaches” definito da memepedia.com come una serie di immagini che descrivono emicrania, mal di testa da ipertensione e stress, alla quale si aggiunge un quarto tipo di mal di testa umoristico inventato dall'utente, che rappresenta qualcosa che l'autore del meme detesta. Nel caso dell’Ucraina, il quarto tipo di mal di testa, quello più insopportabile, è “vivere vicino alla Russia”.

@ukraine è un account nato cinque anni prima, con l’intento di combattere contro il potente vicino (appunto) russo una guerra di propaganda, frammento non secondario del conflitto cominciato con l’Euromaidan ucraino e l’annessione della Crimea da parte russa, e che stava continuando nel Donbass. Il meme sui vari tipi di mal di testa è il più visto e commentato nella storia dell’account fino a quel momento: quasi sessanta milioni di visualizzazioni. È anche quello che appare in qualche modo più profetico. Poco più di due mesi dopo infatti la Russia invade militarmente l’Ucraina.
Lo stesso giorno dell’invasione, l’account @ukraine posta una vignetta, che diventerà ancora più virale del meme sui mal di testa: una caricatura di Hitler e Putin nella quale il primo accarezza il viso del secondo, come farebbe un padre orgoglioso del figlio. È lo stesso account @ukraine a scrivere: “Questo non è un meme, ma la nostra e la vostra realtà, ora.”
Come ha scritto la rivista specializzata in critica dei media Iconografie (peraltro all’interno di un denso numero monografico dedicato proprio all’uso politico dei meme, di cui è consigliatissima la lettura), l’account ufficiale dell’Ucraina aveva ragione: non si tratta solo di un meme, quindi di un’immagine che è già – o in questo caso, ha le caratteristiche per diventare – virale, ma anche di un modo efficace di fare trolling intelligente nei confronti del nemico (Putin dichiara di voler “denazificare” l’Ucraina, ma viene raffigurato come erede di Hitler) e diplomazia nei confronti dei possibili alleati (aiutateci, siamo attaccati da un regime autoritario), mentre dal punto di vista della politica interna può servire a costruire una narrazione condivisa della realtà. E forse tutto quello che quel meme racconta appare ovvio, agli occhi di chi vive in un paese occidentale democratico, tuttavia quell’immagine conserva intatto il suo potere di influenzare la realtà concreta di una guerra. Il potere dei meme, di cui la politica mondiale sembra essere sempre più consapevole.

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L’uso dei meme come arma politica, diplomatica e culturale non è, beninteso, niente di nuovo. Nel 2012 l’americano The New Inquiry ospitava una lunga disamina eloquentemente intitolata “Speaking in Memes”, che partiva dall’analisi della campagna per la presidenza degli Stati Uniti, la prima in cui ogni potenziale elettore seguiva i dibattiti tra i candidati con un secondo schermo tra le mani, tablet o smartphone aggiunto alla televisione: dietro e davanti a quegli schermi era presente un esercito di utenti pronti a creare e propalare gag in tempo reale, cambiando la narrazione dell’evento in modi imprevedibili. L’autore Nathan Jurgenson scriveva in tempi in cui il panorama social si limitava a Facebook, Twitter e poco altro, e concludeva che i politici stessero sviluppando una sorta di alfabetizzazione ai meme, diventando consapevoli del potenziale virale di ogni frase pronunciata pubblicamente, e allo stesso tempo che questa consapevolezza fosse difficile da usare per indirizzare la narrazione in una direzione precisa, perché la spinta più forte rimaneva quella spontanea, dal basso. Un decennio più tardi, possiamo dire che quelle conclusioni non si siano rivelate leggi scolpite nella pietra. Se è infatti vero che i politici hanno una maggiore consapevolezza del potenziale virale delle loro parole, questo non li mette certo al riparo da gaffe e scivoloni di vario genere (si potrebbero qui citare le dichiarazioni del Presidente del Senato italiano immediatamente successive all’accusa di violenza sessuale mossa contro suo figlio, ma gli esempi, in generale, non mancano). E se è vero che i meme più potenti nascono ancora più o meno spontaneamente da utenti sconosciuti, oggi nessun politico sembra rinunciare alla produzione di meme dall’alto, per autocelebrarsi e ribadire ogni giorno il proprio posizionamento. A volte funziona, a volte meno, ma non c’è dubbio che si tratti di un’attività ormai imprescindibile all’interno di ogni progetto politico. Fino a casi estremi di politici di altissimo profilo che fondano gran parte della propria comunicazione su contenuti assimilabili a meme, com’è successo con Donald Trump durante i (e intorno ai) suoi quattro anni da presidente degli Stati Uniti.

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Quello sul legame tra politica e produttori di meme negli Stati Uniti – peraltro terra natale dei social network – è un discorso estremamente articolato, che coinvolge entrambe le modalità della memepolitica, quella dall’alto e quella dal basso, troppo complesso per essere riassunto in questa sede. Ciò che qui preme sottolineare è l’evoluzione dell’uso dei meme da parte della politica, che ha ormai trasferito questi ultimi nella sua cassetta degli attrezzi per la costruzione del consenso. Nessuno, oggi, potrebbe più considerare sensata la distinzione tra “mondo digitale” e “mondo reale”: gli atti comunicativi hanno ricadute molto concrete, e i meme sono, per quanto la cosa possa non piacerci, un atto comunicativo potente nel panorama mediatico contemporaneo.
Questa proliferazione di meme – che siano frutto del lavoro ufficiale dei politici e dei loro team, figli di qualche cosiddetta “fabbrica di troll” oppure autenticamente di un singolo utente della rete – ci pone inevitabilmente davanti a una serie di rischi, che vanno al di là della “semplice” moltiplicazione di falsità e messaggi di odio. Come scrive la psicologa Tiziana Metitieri riprendendo tesi di Emily Wong e Keith Holyoak dell’Università della California, “I meme servono a cristallizzare gli argomenti in forme compatte e facilmente condivisibili, fornendo un potente strumento di persuasione, mobilitazione e raggiungimento di un nuovo pubblico. All'interno delle comunità che li fanno circolare, i meme riflettono un tentativo di gestire il presente […] Tuttavia, per le stesse spinte della tecnologia della comunicazione digitale e dei cicli infiniti di notizie, fissati sulle esperienze del momento presente, siamo portati a trasmettere frettolosamente messaggi disumanizzanti e a costruire memorie condivise distorte.” L’esempio che ritorna è quello della guerra in Ucraina, riguardo alla quale l’ondata di meme può contribuire alla desensibilizzazione dell’utente, portato, per ridurre all’osso il ragionamento, a considerare il conflitto poco più che uno sfondo per la produzione di motti di spirito (e anche le critiche sulla qualità comica di questi ultimi le rimandiamo ad altra sede).
Ai tempi della guerra del Vietnam immagini e reportage, che per la prima volta raccontavano in profondità un conflitto del genere arrivando in ogni salotto, sono state carburante per i movimenti pacifisti americani. Poi altre tragedie successive sono state spettacolarizzate dal mezzo televisivo, portando alla stessa progressiva disumanizzazione denunciata nel caso dei meme sulla guerra russo-ucraina. Impossibile non vedere storie simili che si ripetono su media diversi, in un ciclo che porta grandi potenzialità a deragliare verso mostruose distorsioni.
L’altra costante, purtroppo, è la guerra, ben più antica e persistente di ogni immagine virtuale.

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