Società

Occidentocentrismo

Federico Rampini e il complesso di superiorità atlantista

  • Ieri, 13:52
Federico Rampini
Di: Marco Alloni 

I due libri che stanno ultimamente ingaggiando una sorta di duello a distanza sono, in ordine di apparizione, C’è del marcio in Occidente, di Piergiorgio Odifreddi, e Grazie Occidente, di Federico Rampini. Due libri diametralmente opposti, che tuttavia potrebbero anche trovare dei punti di accordo.

Non foss’altro che per una ragione: che laddove vogliamo postulare uno spirito critico come fondamento del pensare costruttivo, è del tutto ovvio che nulla al mondo è esente dalla possibilità di essere giudicato. Quindi, a rigore, tantomeno Occidente e Oriente. Con una doverosa precisazione: che se l’Occidente è giudicato da Oriente e l’Oriente da Occidente, il rischio è quello di una analisi propagandistica e non intellettualmente probante.

Ma d’altra parte Odifreddi questo rischio di considerare la critica una «tifoseria» senza distinguo o discernimento l’aveva già stigmatizzato qualche mese fa a ridosso dell’uscita del suo saggio, dicendo pressappoco: «Quando io dico C’è del marcio in Occidente, riprendendo la famosa affermazione di Amleto a proposito della Danimarca, non intendo dire né che c’è solo del marcio in Occidente né che c’è del marcio solo in Occidente. Intendo dire che da occidentale mi interrogo sui nostri limiti e disvalori». Con l’ovvio sottotesto che se c’è del marcio ovunque, e non c’è solo del marcio alle nostre latitudini, parlare di anti-occidentalismo nei confronti di Odifreddi ha qualcosa di implicitamente pretestuoso.

Detto questo non nascondiamoci però dietro a un dito: se oggi in Italia esistono due paladini assunti a emblemi dell’anti-occidentalismo e del filo-occidentalismo, costoro sono precisamente Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini: entrambi accompagnati da uno stuolo di aficionados più o meno moderati o radicali. Quindi il problema, essendo comunque di rilievo politico, intellettuale e giornalistico, si pone. E si pone tanto più nella misura in cui qualche decennio fa, di questo clash tra una visione e l’altra del mondo, un certo Hungtinton diede l’emblematica e insidiosa definizione di clash of civilization. E se qualsiasi distinguo è benvenuto, rimane il fatto che alle nostre latitudini due ideali fazioni esistono eccome: gli anti-occidentalisti e i filo-occidentalisti.

Etichette nemmeno troppo recenti, a ben vedere, poiché la definizione di «occidentocentrisme» risale già all’antropologo Claude Lévi-Strauss, e se fu coniata negli anni dell’immediato dopoguerra è perché il problema era già avvertito allora.

Quale problema? Il problema di qualificare l’Occidente senza per questo squalificare il resto del mondo (in particolare l’Oriente, il Mondo Arabo e il Terzo Mondo). Giacché è in tale equivoco fondamentale – in tale pernicioso equivoco etico e metodologico, potremmo dire – che la faccenda si rende pericolosa (come già ci aveva avveriti Edward Said): nel ritenere che l’autocritica sia disfattismo o viceversa nel ritenere che la critica dell’altro sia razzismo. Due posizioni altrettanto false e fuorvianti, ma analogamente sentite come ineluttabili da gran parte delle persone e della stessa intellighenzia.

Restiamo allora al libro di Rampini, e pensiamolo, idealmente, in controcanto con quello di Odifreddi. Cosa salta subito all’occhio, traversando pagine e pagine di difesa a oltranza dei cosiddetti «valori occidentali»? Che, ben al di qua di un equilibrato discorso ad ampio raggio sulle «differenze fondamentali» tra Occidente e Oriente, l’occidentocentrismo rampiniano decide per una «superiorità» dell’Occidente sul resto del mondo, che verosimilmente (o almeno a detta di chi qui scrive) può stare solo nella testa di un ideologo pur cosmopolita, a cui non a caso è venuta l’idea di intitolare uno dei suoi capitoli: «Perché siamo superiori?»

Ora, seguendo questa che vorremmo definire una piroetta analitica, oltreché etica, non scevra da curvature ideologiche, a quale superiorità quintessenziale Rampini fa riferimento? Potremmo rispondere con una battuta che tanto battuta non è: alla superiorità atlantica, cioè alla superiorità determinata, nei secoli e nei decenni recenti, da quella che potremmo definire la centralità della politica di Washington sui destini socio-economici del pianeta. Benissimo: ma allora perché chiamare il volume Grazie Occidente e non Grazie America?

Domanda provocatoria ma in grado di svelare, forse, almeno un dato: l’orgoglio filo-occidentale o filo-atlantista di Rampini è talmente poco avvertito della ricchezza dei «valori altrui» che si appiattisce giocoforza (per legittimarsi o forse per esaltarsi) su questioni rilevanti ma parziali come la scienza, la tecnica, la democrazia e via elencando. Quando il mondo – a partire dal mondo altro, a partire dal Terzo Mondo – è fatto a sua volta di tesori inestimabili. E quando l’Occidente è anche e in primo luogo quello di Platone, Aristotele, Dante e Picasso e molti altri che poco o nulla avevano da spartire con le politiche planetarie decretate nella Stanza Ovale.

Allora, vogliamo ostinarci nella contesa? Facciamolo, certo. Ma senza dimenticare che il mondo è il mondo, e la nostra storia del tutto inscindibile da quella altrui. Non foss’altro perché Marco Polo non esisterebbe senza la Cina, la matematica occidentale senza gli arabi, la teosofia senza Suhrawardi, la prosperità occidentale senza schiavi e risorse dall’Africa, Dante senza Averroè, eccetera eccetera eccetera. E non valga se possibile, a contestazione di questo assunto, l’argomento secondo il quale a dominare oggi il mondo, in tutti i sensi, è l’Occidente. Poiché allora dimenticheremmo che superiorità e dominio non sono o non dovrebbero essere la medesima cosa, ma ben al contrario, su un piano immediatamente umano, l’uno la contraddizione dell’altro. E a vantarsi di dominare sappiamo chi sono da sempre: non tanto i poeti ma i guerrafondai.

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Federico Rampini

RSI Cultura 14.12.2023, 14:25

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