Il 27 gennaio è dedicato a una ricorrenza internazionale: la Giornata della Memoria, un «grido di disperazione e ammonimento all'umanità» come recita il monumento che sorge al centro dell’immenso perimetro di filo spinato che racchiude il campo di sterminio di Birkenau. La data è stata scelta dalle Nazioni Unite perché coincide con la liberazione avvenuta il 1945, da parte dell’Armata Rossa, del campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, un’occasione per ricordare le vittime della Shoah. Il genocidio attuato dal nazionalsocialismo tedesco e dai vari fascismi colpì più di undici milioni di persone appartenenti al popolo ebraico, minoranze nomadi, persone omosessuali, con malattie mentali, disabili, oppositrici e oppositori politici e altre minoranze religiose.
In Europa durante la Seconda guerra mondiale erano presenti oltre mille campi di concentramento. Il caso di Oświęcim, ridenominato durante l’occupazione Auschwitz, è emblematico perché è il campo meglio conservato ancora oggi. Si trattava di un complesso militare preesistente che fu riconvertito dai nazisti a partire dal 1940 in campo di concentramento, ovvero un luogo di internamento per i soldati nemici o per i civili considerati pericolosi per l’ordine pubblico, uno strumento che non aveva come scopo lo sterminio ma piuttosto la rieducazione, lo sfruttamento come mano d’opera a sostegno dell’economia e la soppressione di qualsivoglia opposizione al regime per mezzo della tortura. Per scongiurare ogni sorta di solidarietà, le persone imprigionate venivano ulteriormente discriminate, divise in sottocategorie per rafforzare il processo di deumanizzazione. A ogni gruppo veniva attribuito un simbolo distintivo, la stella di David per gli ebrei, il triangolo di colore verde per marchiare i delinquenti e le delinquenti comuni, rosso per le oppositrici e gli oppositori politici, nero per le persone definite «asociali», viola per i testimoni e le testimoni di Geova, mentre il triangolo rosa per le persone omossessuali. Sarà più avanti, nell’autunno del 1941, che il campo di concentramento di Auschwitz verrà trasformato in un campo di sterminio. Il territorio di Oświęcim venne interamente sfollato e organizzato in settori, Auschwitz diventerà un polo di smistamento collegato ad altri quarantotto campi di concentramento e altri sei campi di sterminio del Terzo Reich.
Una foto scattata dall'esercito sovietico subito dopo la liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945
La giornata della memoria potrebbe presentarsi anche come l’occasione per attraversare - fisicamente - quei luoghi teatro di atti di sospensione dei diritti dell’essere umano; un modo per riflettere, empatizzare e creare una propria, autentica, memoria sensoriale. Cosa significa oggi ripercorre e -percorrere - uno degli spaccati tra i più atroci e disumani della storia occidentale? Dalla stazione centrale degli autobus di Cracovia partono giornalmente dei grossi pullman da ottanta posti, con aria condizionata, il riscaldamento, comodi sedili imbottiti con i poggia piedi. Tuttavia, questo, l’impiegata dell’infopoint non me lo ha fatto presente, preferendo mandarmi al piazzale sopraelevato dove mi aspetta un piccolo pulmino sgangherato, dai sedili sfondati, montati quasi certamente in un secondo momento, giacché il veicolo non sembra pensato per trasportare delle persone. Il catorcio è già colmo di turistə, una quindicina di persone al massimo. L’autista si rivolge a me in polacco; compro il mio biglietto. Abbasso la testa e arranco fino all’ultimo posto libero rimasto. Sono in allerta, sono pensierosa, molti gli interrogativi che si succedono senza sosta nella mia mente: cosa mi aspetterà una volta giunta a destinazione di questo viaggio di nemmeno due ore? Ci troviamo in piena pandemia, ma le regole su questo pulmino sono sospese, alcunə turistə stanno sedutə con naso e bocca coperti, lo zainetto e un libro informativo in grembo. Altri invece danno l’impressione di essere arrivati su questo mezzo sgangherato direttamente dopo aver trascorso la nottata per locali, l’odore di alcohol fuoriesce senza incontrare l’ostacolo della mascherina e i postumi della sbronza sono talmente evidenti che per uno di loro è difficile mantenere l’equilibrio sulla seggiolina: una curva a destra e la testa sbatte contro il finestrino, una curva a sinistra e l’intero corpo privo di sensi cade, come morto, verso lo stretto corridoio di passaggio che ci separa, solo i riflessi dell’amico riescono ad anticipare una caduta rovinosa. Tutto sembra surreale. Alla radio suona musica pop polacca, l’autista alza il volume. Lasciata l’autostrada capisco che questo non è un pulmino diretto come credevo all’inizio, anche se il criterio delle fermate rimane un mistero. Sale un’anziana, paga con molte monetine e scende poco più avanti, proprio di fronte a quella che sembra essere la casa sua: una proprietà autonoma circondata dal verde e da altre case nelle stesse condizioni qua e là. Arriva la mia fermata, Oświęcim, tutte le persone che si trovano lì con il mio stesso proposito scendono, scaricati al bordo di quella strada ci guardiamo attorno: un chiosco, delle case; la stessa aria perplessa compare sul volto di tuttə. Tentenno, prendo tempo e cerco su maps la posizione esatta, voglio che il gruppo si disperda. Mi incammino, trovo alcune persone davanti a un cartello che indica la distanza dall’ingresso del memoriale. Proseguo lungo quel muro che immagino separarmi da quello che un tempo è stato un campo di concentramento prima e di sterminio poi; un luogo di smistamento e una fredda fossa comune. Non mi sembra vero, a tratti vedo quelle che mi sembrano delle caserme, in ottime condizioni, non può essere il campo. Cammino tutto attorno accanto alla carreggiata, vari segnali mi fanno ricrede - questo perimetro fa parte del campo - cammino in silenzio, raggiungo il gruppo che si sta riprendendo dalla nottata precedente, anche loro stanno in silenzio, forse l’aria fredda li ha fatti riprendere, o forse è la paura di fare i conti con gli spettri della nostra condizione umana.
Apprestarsi, oggi, a varcare il cancello sul quale torreggia la scritta in ferro battuto Arbeit macht frei è una sensazione particolare, priva di quell’atmosfera sacrale che si ha stando in altri luoghi della morte, del resto oggi il memoriale è di fatto un museo. Ancora prima di varcare quel cancello, la visitatrice e il visitatore vengono invitati alla visione di un filmato introduttivo. All’interno del cinema una voce enfatica ringrazia per il coraggio dimostrato fin qui, definendoti una «persona speciale». Terminata la visione si lascia la sala imboccando un’altra porta e ci si ritrova, ora, all’interno del campo. Tutto il percorso guidato è un colpo dritto in faccia. Quello che impressiona a un primo sguardo è come gli edifici si siano conservati come allora; la guida conduce i visitatori e le visitatrici dentro e fuori queste strutture in muratura, oggi allestite con delle stanze tematiche. In una stanza sono conservate due tonnellate di capelli appartenute a più di quarantamila persone, per la maggioranza donne. Si susseguono poi, in altre stanze tonnellate di vestiti, di valige e di scarpe; tutti effetti personali di donne, di uomini e dei duecentotrentamila bambine e bambini deportati, dei quali solo settecento sopravvissero ad Auschwitz. La guida racconta come tutto fosse calcolato e studiato nel più piccolo dettaglio, con una freddezza disarmante. Ci fa notare tra le fotografie d’epoca esposte come i soldati nazisti stavano, con aria rilassata, con una sigaretta tra le dita dando le spalle alle persone deportate che scendono dai vagoni e si ammassano lungo la banchina ferroviaria. L’ordine era quello di non scatenare il panico; per questa ragione prima della deportazione veniva detto alle persone di portare con sé una valigia contenente i loro effetti personali, una volta scese dal treno veniva chiesto loro di scrivere nome e cognome su quella valigia e di depositarla sul marciapiede, con la promessa che, in un secondo momento, sarebbero rientrate in possesso dei loro beni. Inutile dire che la maggior parte di quelle persone andava direttamente a morire, non veniva nemmeno smistata verso altri campi; mentre le loro valige venivano caricate su un treno diretto verso la Germania, perché ogni bene materiale era prezioso e poteva essere riutilizzato. Un altro lungo corridoio ospita le fotografie che ritraggono i prigionieri e le prigioniere: a sinistra le foto delle donne, tutte meticolosamente rasate perché con i loro capelli si tessevano i tessuti, a destra gli uomini. Questi primi piani non sono più vecchi del 1943, anno in cui i nazisti smisero di fotografare le loro vittime: le persone deperivano troppo in fretta a causa delle condizioni di segregazione; perciò, quelle fotografie erano del tutto prive di utilità. A capo di ogni struttura, spiega la guida, veniva posto un detenuto, un cosiddetto kapò, responsabile della disciplina all’interno della baracca e sorvegliante del lavoro. I kapò inizialmente venivano scelti solo tra i criminali tedeschi, poi i nazisti iniziarono a dare questa posizione anche ad altri ebrei. Questi individui sono ricordati come persone sadiche e violente, tant’è che alcuni di loro furono addirittura giustiziati perché considerati dagli stessi nazisti «troppo spietati».
I viali alberati tra un blocco di edifici, un cortile, e l’altro, oggi sono inondati da gruppi di turistə avvolti nelle loro calde giacche colorate. Sembra impossibile che quei passaggi, oggi vivi e rumorosi, pochi decenni fa erano luogo di interminabili appelli, che costringevano le persone a stare in mezzo alla neve, al gelo, reggendosi su gambe deboli e stanche, per ore e ore; il più lungo appello di cui si ha testimonianza avvenne proprio ad Auschwitz e durò diciannove, disumane, ore. Le torture proseguivano nelle celle punitive sotterranee, luridi loculi di otto metri quadrati ciascuna, in cui venivano stipati fino a quaranta esseri umani per volta. Un altro luogo terrificante, anch’esso perfettamente conservato, è la camera a gas. Da normale inceneritore, spiega la guida, anche questo luogo è stato ritrasformato dai nazisti. Un’innocua collinetta di terra camuffa la struttura dalla quale svetta un camino in mattoni rossi. La camera a gas oggi appare buia, umida. Se il sole è alto all’esterno, da dei fori nel soffitto, entrano dei raggi di luce che tagliano chirurgicamente l’ombra che sovrasta la stanza. Sollevando lo sguardo si osservano le feritoie dalle quali venivano gettati dall’alto dei sassolini impregnati di zyklon b, un pesticida che provocava una morte lenta e lancinante. I forni erano in funzione tutto il giorno, tutti i giorni. Con l’evolversi della guerra, nel 1944, solo ad Auschwitz venivano bruciati tra i dieci e i quindicimila cadaveri al giorno. Per accelerare quella che era stata battezzata la «soluzione finale della questione ebraica» la ferrovia venne estesa fino all’interno del campo di sterminio di Birkenau, che dista a circa quindici minuti di autobus da quello di Auschwitz.
L’ingresso di Birkenau è tristemente impresso nell’immaginario dei più, con il suo lungo edificio di mattoni rossi sovrastato da una torre centrale sotto la quale, dal maggio del 1944, vengono fatti passare i binari del treno. Qui c’è una desolazione molto diversa, il campo è immenso e circondato solamente da un timido recinto di filo spinato. Nella radura, dove è ricresciuta l’erba, si ergono qua e là dei camini in muratura, le baracche qui erano di legno e, una volta liberato il paese, le persone del luogo semplicemente hanno utilizzato quella legna per riscaldarsi o per costruire nuove abitazioni altrove. La guida spiega che il progetto nazista era ancora più ambizioso, il campo sarebbe dovuto essere ancora più esteso, e che, a causa del sovraffollamento, il terreno era costantemente una distesa di fango. Stando in piedi alla fine dei binari, che conducevano nel cuore del campo di sterminio, dove oggi è esposto uno dei minuscoli vagoni utilizzato per le deportazioni, è impossibile vedere a occhio nudo la fine del campo se non fosse per un boschetto di abeti che traccia un’idea di dove si trova il confine di filo spinato. Poco si è conservato di questo luogo di annientamento, infatti il 20 gennaio 1945 i forni vennero smontati su ordine di Himmler e caricati sui vagoni con destinazione Mattausen, con il proposito di poter continuare a usarli lì: il carico andò perso. Le camere a gas, nelle quali venivano stipate duemila persone alla volta, vennero fatte esplodere con la dinamite. Le innumerevoli baracche, che stipavano circa settecento persone l’una, per un totale di circa trenta mila prigionierə, vennero smontate. Arrivò la liberazione e si scoprirono gli orrori della Shoah, ma disfarsi degli orrori del genocidio al quale erano scampati i sopravvissuti è impensabile. Per questa ragione, forse, il monumento posto all’interno di Birkenau recita in tutte le lingue «un grido di disperazione e ammonimento all'umanità», un messaggio che vuole ricordarci – sempre – che in nessun tempo siamo immunizzati a questo tipo di crudeltà. Thomas Bernhard, scrittore austriaco che durante questi anni era un bambino, riflette nella sua Autobiografia su come nel terribile Istituto di rieducazione per bambini difficili nel quale era stato mandato, in mezzo al cortile svettava ieri la bandiera con la croce uncinata attorno alla quale si riunivano ogni mattina per il saluto nazista al grido di «Heil Hitler» e, trascorsi molti decenni, nello stesso cortile di quel istituto che ha mantenuto la sua natura di riformatorio, svetta ora la bandiera della Repubblica Democratica Tedesca. Pertanto scrive: «i tempi e i metodi non mutano. Ne avevo una prova in più nella mia mente». Che è anche un po' il messaggio che, la guida di questo viaggiodellamemoria ha voluto affidare a noi visitatori e visitatrici; non solo responsabilizzandoci sul passato, ma facendoci presente quanto sia fondamentale denunciare i massacri e le persecuzioni che avvengono ancora oggi in Europa e alle sue porte.
Auschwitz-Birkenau