Testimonianza

Fuga dalla guerra: il viaggio dalla Bosnia alla Svizzera

La 40enne Dzenita Prses ci racconta la sua fuga verso la libertà. Nel 1992 lei e la sua famiglia decidono di tentare la fuga a piedi dalla città natale, in Bosnia, fino in Croazia. Dopo varie peripezie la famiglia arriva a Lugano, luogo di salvezza

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mostai bosnia
Di: Virginia D’Umas 

La guerra in Bosnia (scoppiata nel marzo 1992) ha rappresentato un conflitto etnico e territoriale scaturito dalla disgregazione della Jugoslavia, coinvolgendo principalmente bosniaci musulmani, serbi e croati, e ha portato a gravi atrocità e si è conclusa con gli Accordi di Dayton, che hanno diviso la Bosnia in due entità principali: la Federazione di Bosnia e Erzegovina e la Repubblica Srpska.

Quando la guerra scoppiò Dzenita aveva solo 7 anni.

Ricorda ancora il primo bombardamento come fosse ieri: «Era mattina presto e in casa stavamo ancora tutti dormendo, quando a un certo punto mia mamma ci ha presi e ci ha buttati giù dal letto. I vetri sono scoppiati e abbiamo visto la prima grande esplosione».

Era la fine del 1991. Da lí, e stato un susseguirsi di bombardamenti, che costrinsero la famiglia di Dzenita, cosi come moltissime altre famiglie, a nascondersi e a vivere nelle loro cantine, in stanze piccole e senza vetri, aspettando il momento migliore per uscire fuori. Le madri andavano a riempire le taniche d’acqua, con la paura addosso di non rivedere più le proprie bambine (e viceversa). Queste esperienze comportarono conseguenze negative sulla salute, sia fisica che mentale, come ci spiega la 40enne scappata dalla guerra: «A un certo punto non stavo più bene fisicamente, ho iniziato a soffrire di asma e mi e venuto il soffio al cuore, oltre a attacchi di panico regolari. Smettevo proprio di respirare per un po’, stavo parecchio male. Grazie ad alcuni medici e a delle conoscenze nel militare, io, mia sorella, mia mamma e mia zia siamo riuscite ad aggregarci a una truppa di soldati che andava fino al confine. Da qui abbiamo poi attraversato il paese varcando le montagne, il tutto di nascosto e a piedi».

Questo viaggio, che è durato mesi, non è stato senza intoppi, infatti Dzenita ha rischiato la vita più volte. A parte il freddo, le condizioni precarie di igiene e il cibo scarseggiante, il gruppo aveva a disposizione solo qualche cavallo che la giovane donna alternava con sua sorella minore. «Un giorno ero io sul cavallo insieme a un ferito, che era cieco e bendato perché era stato colpito agli occhi e alla gamba durante la guerra. A un certo punto, viaggiavamo in questo bosco della Francia in mezzo alla neve, con un freddo pungente, e c’era questo sentiero al buio dove non si vedeva neanche dove mettere i piedi. E lì hanno cominciato a sparare, e io sono stata colpita di striscio al braccio, e sono stata miracolata, perché il militare ferito, che era sul cavallo con me mi ha buttata giù per proteggermi, e grazie al cielo mi ha buttato giù dalla parte giusta, perché dall’altra parte c’era un dirupo».

L’immigrazione in Svizzera e la possibilità di cominciare una nuova vita

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  • Patrizia Berta, Unsplash

L’immigrazione in Svizzera italiana ha coinvolto principalmente rifugiati e richiedenti asilo, in particolare durante i conflitti nei Balcani e in altre zone di crisi. La Svizzera ha offerto accoglienza e protezione a migliaia di persone in fuga dalla violenza, contribuendo alla costruzione di una comunità diversa e interculturale. 

Come tante altre persone, la giovane donna di origine bosniaca è immigrata in Svizzera alla ricerca di protezione e di una vita migliore. Mediante il suo certificato medico, che diceva che doveva lasciare immediatamente il paese per ragioni di salute, e grazie a suo zio, che le ha inserite in un gruppo di soldati feriti diretti all’estero, lei e la sua famiglia sono riuscite ad arrivare in Croazia. Qui, rimasero dapprima qualche mese in un campo profughi, per poi trasferirsi in un appartamento, che è stato messo loro a disposizione da una signora che hanno conosciuto sul posto. Passato ancora qualche mese, la madre di Dzenita ha fatto richiesta di trasferimento in Svizzera e così la famiglia arrivò a Chiasso, nel 1994.

Una volta passato lo shock culturale dovuto al primo luogo di accoglienza affollato, la famiglia è stata trasferita a Lugano.

«All’inizio provavo tanta confusione, il fatto di non parlare la lingua e di ritrovarmi con tante persone sconosciute di origini diverse, non è stato facile. Però devo dire che quando mi sono ritrovata in un ambiente più stabile, a Lugano, e ho potuto cominciare le elementari è stato più semplice, perché sono stata accolta in una maniera bellissima dalla maestra e ancora oggi ho dei bei ricordi di quel periodo».

La storia di Dzenita, come quella di milioni di altri profughi, è una storia di resilienza e di coraggio, ma anche di adattamento a un nuovo paese e a una nuova cultura. L’immagine dell’immigrato è ancora molto stigmatizzata nella società odierna e questo, a detta della giovane naturalizzata è dovuto al fatto che non tutti gli immigrati si sentono svizzeri e il loro legame con la patria di origine è più forte che con quella di accoglienza. «Molti stranieri che vivono all’estero per scelta, hanno ancora un legame con la propria patria, per via dei famigliari e amici che vivono ancora lì e ci ritornano spesso. Per me non è stato così. All’inizio è stato difficile perché come profugo tu non hai la possibilità di entrare nel tuo paese, avendo un permesso come quello che avevo io non potevo muovermi dalla Svizzera, in più essendo arrivata qui da bambina ho perso tutti i contatti con amici e famigliari. La mia vita ora è qui, e ne sono felice».

Inoltre, Dzenita sottolinea il fatto che dietro ogni persona c’è una storia e spesso gli immigrati vengono visti come un numero. E aggiunge anche, che non tutti sono abbastanza forti da poter vivere la guerra e che spesso quando si arriva in un paese di accoglienza invece di incontrare comprensione e compassione, si viene giudicati.

«Il problema che molta gente non sa è che molti profughi rifugiati che arrivano in Svizzera, con il primo tipo di permesso che ricevono, per legge non possono lavorare pur volendo, a questo poi si aggiunge il problema della lingua e il fatto di dover ripartire da zero, ricostruendo nuovi legami, amicizie e imparare a vivere bene nel paese di accoglienza».

Dzenita e la sua famiglia sono stati accolti dalla Croce Rossa Svizzera, la più grande e antica organizzazione umanitaria in Svizzera, che aiuta la persone in difficoltà negli ambiti della salute, dell’integrazione e del salvataggio.

A detta dell’immigrata, l’accoglienza in Svizzera è ammirevole e il nostro Paese offre tanto da questo punto di vista. Le associazioni come questa non accolgono soltanto gli immigrati ma li aiutano anche ad integrarsi, processo fondamentale per il buon funzionamento della comunità interculturale.  

«Per me l’integrazione viene prima di tutto. I problemi con l’immigrazione nascono quando non c’è integrazione. Perché questo ti porta ad avere problemi a integrarti anche nel mondo del lavoro e nella società in generale. Secondo me ognuno di noi può vivere serenamente, ben integrato, mantenendo la propria cultura e le proprie tradizioni. Alla fine abbiamo tutti un solo mondo, quindi bisogna cercare di vivere più insieme come esseri umani, invece di separarci». (Dzenita Prses)

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