Storia

Mostruose (e) divine: le metamorfosi femminili da Scilla a Sennentuntschi

La mostrificazione del corpo della donna nel corso dei secoli, quale spunto di riflessione sulle radici culturali e storiche di un fenomeno purtroppo ancora persistente 

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Gustave Moreau, Edipo e la Sfinge, 1864, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York.

Di: Leonardo Marchetti  

Nell’ambito del festival Echi di storia ‘25, sabato 12 aprile ore 14.30 all’Asilo Ciani di Lugano, Angela Giallongo e Simona Sala dialogheranno sul tema L’immaginario occidentale. Genesi dei mostri femminili tra Antichità ed Età moderna, esplorando le radici profonde di figure ibride e mostruose, comunque perturbanti.

Le donne mutano forma. Non solo nel mito, ma anche nel pensiero che le racconta. Dal Mediterraneo antico al Medioevo cristiano, dalla pittura ottocentesca al cinema contemporaneo, la femminilità viene narrata come metamorfosi, un incessante scivolare tra umano e non umano. Sfinge, Sirene, Scilla, Lamia e Mélusine non sono soltanto figure mostruose: sono costruzioni culturali, nodi simbolici che rivelano paure, desideri e il bisogno sociale di contenere ciò che si teme.

Nei miti antichi, il femminile è spesso un punto di rottura, un confine che si apre su qualcosa di inaspettato. Pandora, in Esiodo (Teogonia, vv. 570-612; Erga, vv. 53-69), è il primo grande enigma: è il dono che porta rovina, è il male che si veste di bellezza. Il suo stesso nome significa “tutto-dono”, una formula ambigua che già anticipa il suo ruolo di inganno. Similmente, Semonide di Amorgo (Satira delle donne, vv. 2-118) suddivide le donne in categorie animali: la cagna petulante, la scimmia deforme, l’ape virtuosa (unica eccezione salvifica). Non è tanto una classificazione, quanto un tentativo di ridurre la complessità femminile a una natura predefinita.

Ma che cosa rende una donna un mostro? La voce? Il corpo? Il suo sguardo?

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Sulpicia

Oggi, la storia 13.06.2016, 07:05

La Sfinge di Tebe sfida Edipo con un enigma che è al tempo stesso intellettuale ed esistenziale (Omero, Odissea, XI, 420-434). Il suo potere non è fisico, bensì cognitivo: il dominio della parola e della conoscenza. Le Sirene, invece, sovvertono il mondo maschile con la loro voce (Odissea, XII, 153-200): cantano per portare alla rovina, la loro seduzione è un’arma che neutralizza il logos razionale.

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Raoul Dufy, Les sirènes, 1911, incisione, Metropolitan Museum of Art, New York.

Eppure, non tutte le donne-mostro sono creature del pericolo. Erodoto (Storie, IV, 9.1) racconta di una regina scita, metà donna e metà serpente, che impone a Eracle un patto: prima di restituirgli le cavalle rubate, vuole da lui un figlio. Questa figura non è unicamente minacciosa, ma anche generativa: il serpente, da simbolo del pericolo, diventa principio di continuità dinastica. La stessa ambivalenza caratterizza Mélusine, fata dissodatrice e costruttrice, che trasforma il paesaggio con la sua opera (Jean d’Arras, Mélusine, 1393), ma che è condannata dalla sua stessa diversità giacché la sua duplice natura è il segreto che non può essere svelato senza distruggerla.

Le donne-mostro oscillano tra il pericolo e il prodigio. Il loro corpo è sempre una soglia: la Sfinge è l’ostacolo tra la vita e la morte, le Sirene il confine tra il desiderio e l’abisso, Scilla tra la terraferma e il mare (Odissea, XII, 73-126), tra la vita e la morte. Questo loro essere liminali è ciò che le rende temibili, ma anche affascinanti.

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Figurina di Scilla, fine IV a.C., bronzo, Museo Archeologico Nazionale, Atene.

L’arte ha dato forma a questa ambiguità. Edipo e la Sfinge di Gustave Moreau (1864) ci restituisce una creatura al tempo stesso sensuale e terrificante. In Lady Lilith (1867), Dante Gabriel Rossetti rielabora la tradizione della femme fatale, con la chioma rossa che rimanda alla Lamia, il serpente tentatore. Edvard Munch, in The Sin (1902), riduce tutto a uno sguardo ipnotico, in cui il peccato non è un atto, ma una presenza.

Nel cristianesimo, la donna-mostro assume connotazioni apocalittiche. Nell’Apocalisse (12,13), il drago si scaglia contro la donna che ha partorito il figlio maschio: il serpente diventa persecutore, ma la donna si trasforma in figura salvifica. Allo stesso tempo, nella tradizione egizia, Isis-Thermouthis, dea con corpo di serpente, incarna la fertilità e la protezione (David Frankfurter, Religion in Roman Egypt, 1998). Similmente, le Naga nella mitologia indiana non sono esseri mostruosi, ma custodi delle acque, legate alla vita più che alla distruzione (Discesa del Gange, Mamallapuram, VII-VIII secolo). Il confine tra il sacro e il temibile, tra la creatrice e la minaccia, è come si capisce sempre sottile.

Franz von Stuck, Il Peccato (Die Sünde), 1893, olio su tela, Monaco. Neue Pinakothek, Pubblico dominio.png

Franz von Stuck, Il Peccato (Die Sünde), 1893, olio su tela, Monaco. Neue Pinakothek.

Se il XIX secolo trasforma appunto la donna-mostro nella femme fatale, il XX e XXI secolo la riportano al suo archetipo originario: quello della metamorfosi continua. La Medusa di Percy Jackson (Rick Riordan, The Lightning Thief, 2005), la Lamia di Penny Dreadful (John Logan, 2014), la sirena de La forma dell’acqua di Guillermo del Toro (2017): tutte queste figure riprendono la tradizione antica e la reinventano, rendendo la metamorfosi non più solo un destino, ma una possibilità suscettibile di infinite variazioni.

Come sempre l’arte prosegue questo dialogo: la Scilla di Johann Heinrich Füssli (Ulisse tra Scilla e Cariddi, 1794-1796), la tentazione di Eva nella Cappella Sistina di Michelangelo (La caduta, 1508-1512), la Mélusine reinventata da Dino Buzzati in Poema a fumetti (1969), attestazioni tutte del carattere anfibologico del mostruoso femminile, non un semplice topos ma una struttura di pensiero che si adatta ai tempi, mostrando il modo in cui la società legge il corpo e il potere della donna.

Come si capisce da questo rapido excursus, i miti non ci raccontano solo storie: ci mostrano come vediamo il mondo. Prendiamo, ad esempio, la leggenda della Sennentuntschi, diffusasi in età moderna nelle regioni alpine di lingua tedesca, nel 2010 oggetto di un film, Sennentuntschi diretto da Michael Steiner e, più recentemente, anche oggetto di un podcast, Sennentuntschi, un oscuro mondo alpino curato da Simona Sala e Olmo Cerri. Qui il femminile non è solo temuto per la sua alterità, ma per la sua capacità di ribaltare i rapporti di potere. La bambola, letteralmente “pupazza dei pastori” (Sennentuntschi, per l’appunto), creata dai pastori per riempire un vuoto, prende coscienza, si anima, e alla fine si vendica. Non più oggetto agito dal desiderio animalesco e primario, la bambola diventa soggetto, si trasforma in un’incarnazione dell’angoscia di chi ha osato plasmare la vita, una donna vindice dell’impostura del maschio generatore. È facile vedere in filigrana in questa leggenda, nata da un contesto di isolamento e paura del femminile, le più classiche dinamiche di controllo, desiderio e repulsione che ancora una volta permeano la costruzione dei mostri femminili nella storia; quell’immaginario della donna metamorfica che non solo sopravvive, ma che si riconfigura senza posa in risposta ai mutamenti culturali: segno, ancora una volta, della sua funzione di specchio delle ansie collettive, in sublime sospensione, orridamente bella, ai margini pulsanti di mondi maschili e femminili in costante conflitto.

59:12

Riprendersi il corpo - Viaggio al femminile nell’arte

Voci dipinte 17.09.2023, 10:35

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