Storia

Donne che si difendono da sole

L’autodifesa femminile è il tema di un recente saggio che indaga la storia della violenza sulle donne attraverso una prospettiva finora inesplorata

  • 28 febbraio, 16:00
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Edith Garrud e un volontario vestito da poliziotto dimostrano alcune delle tecniche che Garrud insegna come istruttrice.

Di: Lisa Fornara 

Nell’anno 643 d.C. Rotari, un re longobardo, decise che era tempo di mettere per iscritto le leggi del suo popolo, fino a quel momento tramandate solo oralmente. Per farlo si consultò con gli anziani perché, secondo lui, erano i detentori della memoria e perciò la fonte più affidabile per conoscere le antiche norme consuetudinarie. Così, nel documento passato alla storia come l’editto di Rotari, troviamo un articolo, il 278, che recita: “Una donna non può fare irruzione a mano armata in una proprietà, ossia un hoberos, perché appare assurdo che una donna o una fanciulla di condizione libera possano esercitare violenza con le armi, come se fossero uomini”. Tale disposizione fa sorridere perché se l’esercizio della violenza femminile non fosse stato un problema, non vi sarebbe stata nessuna necessità di disciplinarlo. Già da questo breve estratto di epoca altomedievale si possono scorgere elementi che sembrano delle costanti nella storia e caratterizzano la subalternità della condizione femminile nel tempo: il disarmo delle donne, il divieto di agire con la forza, l’irrazionalità di un gesto aggressivo e l’innaturale emulazione di un comportamento ritenuto maschile.

Concezioni, limiti e punizioni che hanno inibito le possibilità di difendersi delle donne, come racconta un recente saggio pubblicato dall’editrice Viella per la collana della Società Italiana delle Storiche: L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia, curato da Simona Feci e Laura Schettini. Un lavoro che restituisce visibilità a una storia delle donne rimasta nell’ombra, quella dell’autodifesa femminile e femminista di fronte alla violenza maschile. Considerando un arco temporale che dal XVII secolo arriva fino al presente, il volume raccoglie tredici contributi di quindici autrici, capaci di intessere una narrazione corale e multidisciplinare di pratiche e vissuti riferiti a contesti spaziali diversi.

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Caricatura di Arthur Wallis Mills, pubblicata sulla rivista Punch il 6 luglio 1910, raffigura Edith Garrud da sola di fronte a un gruppo di poliziotti spaventati.

Suddiviso in tre aree tematiche, il saggio inizia con una prima parte dedicata all’autodifesa in quanto atto politico, di autodeterminazione. Sorprendente, ma anche divertente, il contributo di Alessandra Chiricosta sulla storia delle Ju-jitsuffragettes, donne impegnate nei movimenti per il diritto di voto, che si sono organizzate per apprendere un’arte marziale giapponese, il ju-jitzu, e potersi proteggere dai feroci maltrattamenti che la polizia riservava loro. Tra queste militanti spicca la figura di Edith Garrud, insegnante del Suffragette Self-Defense Club, il primo gruppo di autodifesa femminista europeo sorto a Londra all’inizio del Novecento. Una donna divenuta famosa per le sue esibizioni pubbliche, in cui invitava gli spettatori uomini a battersi con lei per sfatare il mito dell’inferiorità fisica femminile. Ogni volta, nonostante la corporatura minuta di solo un metro e cinquanta, Edith Garrud riusciva a sconfiggere tutti i suoi sfidanti grazie alla tecnica del ju-jitzu.

Nei diversi saggi che compongono invece la seconda parte del libro è affrontata la questione della giustizia e viene messa in evidenza la cultura patriarcale presente in ambito giuridico ed esercitata tutt’oggi nei tribunali, ad esempio nei processi legati ai reati sessuali, in cui sono ancora molto radicate le forme di vittimizzazione secondaria. Un’impostazione che possiamo ritrovare anche in Svizzera, dove la recente riforma del Codice penale in materia sessuale -entrata in vigore lo scorso luglio- ha preferito il principio del “no significa no”, invece del “soltanto sì significa sì”. Una scelta problematica, perché delega alla donna il compito di opporsi alla violenza e rischia di spostare l’attenzione sul comportamento della parte lesa, deresponsabilizzando l’aggressore.

Infine, l’ultima sezione del volume si immerge in epoche più remote, quando la violenza maschile all’interno del nucleo familiare era uno strumento legittimo dei padri per «correggere» e controllare moglie e prole. In un contesto simile diventava molto difficile per le donne dimostrare che le percosse subite fossero efferate al punto da richiedere provvedimenti. Oltre a ciò, una reazione aggressiva a propria difesa era considerata sovversiva e quindi meritevole di punizione. Con dei margini di azione così ridotti, in che modo le donne potevano difendersi dalla violenza maschile? È questo l’interrogativo a cui cerca di rispondere il contributo di Simona Feci, che si concentra sulla Roma del Seicento.

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Immagine di copertina. L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia. A cura di Simona Feci e Laura Schettini, editrice Viella.

In effetti, delle strategie per proteggersi esistevano e andavano dall’esclusione testamentaria del coniuge violento alla fuga in luoghi di accoglienza, con il rischio elevato di essere ricondotte al marito. Le nobildonne trovavano rifugio e riparo soprattutto nei conventi, mentre alle altre restavano le case per “malmaritate”. Si trattava di solito di soluzioni temporanee e, a volte, servivano ad anticipare una richiesta di separazione legale, comunque assai difficile da ottenere. Era poi possibile affidarsi a rimedi magici, cioè intrugli e pozioni per placare l’aggressività del marito oppure, in casi più estremi e a tutela della propria vita, si ricorreva alla somministrazione di veleni letali, una pratica diffusa nella società moderna.

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Femminicidi in Svizzera

Telegiornale 03.12.2024, 20:00

La natura strutturale della violenza maschile sulle donne è ben messa in luce dalla storia dell’autodifesa femminile e ricorda che essa resta un grave problema sociale. Gli otto femminicidi verificatisi nella Confederazione dall’inizio dell’anno, con la media di uno a settimana, confermano l’insufficienza delle politiche di prevenzione e protezione. Come ha sostenuto pochi mesi fa la consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider, dopo aver letto il rapporto intermedio sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Svizzera, «le donne non sono al sicuro nel nostro Paese». Nell’attesa di un imminente cambiamento, è confortante sapere che esiste una lunga tradizione di donne che, in mancanza di alternative, si sono difese da sole. 

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