ACQUOLINA è un piccolo compendio di curiosità gastronomiche, raccontate dalla A alla Z in ordine sparso, per scoprire l’origine dei piatti, le parole e i modi di dire inerenti al cibo; con ACQUOLINA, Anna Marlena Buscemi, gastronoma ed educatrice, svelerà come funzionano i nostri sensi e nascono le nostre abitudini alimentari ogni volta che siamo coinvolti nell’atto del mangiare.
Continuano le lettere e con loro anche le parole gastronomiche.
Oggi, con l’avvicinarsi della bella stagione, procediamo con la lettera D, come “dieta”: preparatevi a un viaggio che non vi aspettate all’insegna della storia che si cela dietro al termine “diaita” – dal greco – e da quando e come abbiamo iniziato ad associare il termine “dieta” a uno stato di privazione dettato dai luoghi comuni. Sapevate che sono state la Regina Vittoria e l’Imperatrice Elisabetta d’Austria i primi modelli da seguire alla stregua delle influencer di oggi?
D come Dieta
/diè -ta/
sostantivo femminile
Uno dei termini più fraintesi della storia
Il buon proposito di ogni lunedì
Ne esistono di vari modelli, a seconda dei tempi, delle mode, delle scelte e delle esigenze [ex: mediterranea, lunare, disintossicante, flexitariana, del pompelmo, macrobiotica ecc.]
Sinonimo: “mi prendo cura di me”/ Contrario: “ormai è andata così”
Sono assolutamente d’accordo con voi. E condivido ogni moto di ribellione che insorge ogni qualvolta questa parola si manifesta tra i nostri pensieri, tra le parole dei giornali, tra gli sguardi della gente, nelle raccomandazioni degli esperti e, in modo più inequivocabile, nei buchi da aggiungere alla nostra cintura. Perché, diciamocelo, per chi, come me, è figlio dell’era dell’abbondanza, “dieta” è sinonimo di rinuncia, stretta alleata della prova-costume, acerrima nemica della convivialità e di quasi tutti i piaceri della vita.
Appena sentiamo o vediamo comparire quella parola, la nostra mente la traduce in un bombardamento di grandi X rosse che si abbattono severe su opulenti buffet, succulente prelibatezze, colazioni da campioni, pranzi di lavoro, aperitivi, cene e chi più ne ha più ne metta: nulla intorno sembra essere abbastanza incoraggiante e utile a consolarci per cotanta perdita. Così, mentre i più sagaci riescono a trasformare l’obiettivo in motivazione, tutti gli altri iniziano una sorta di conto alla rovescia verso la riconquista della libertà perduta; ma chi ci ha privato di questa famigerata libertà? Chi o cosa ci rende prigionieri?
Probabilmente un aggettivo, quello che resta sottinteso, ma presente, ogni qualvolta si parla di dieta: bastano dieci lettere a comporre “dimagrante” e ad esiliarci nell’inferno della privazione. Se ci pensiamo, nessun mussulmano, vegetariano o qualsivoglia essere umano si sentirebbe in dovere di specificare che è a dieta se, per cultura o per scelta, avesse deciso di escludere alcuni cibi e bevande dalla propria alimentazione, a differenza dei malcapitati di turno che si vedono invece privati della propria facoltà di scegliere cosa, come e quanto mangiare per affrontare la bilancia senza timori.
La dieta contemporanea è quindi non solo, nella maggior parte dei casi, finalizzata al dimagrimento e strettamente imparentata ad un regime ipocalorico, ma anche caratterizzata da un vocabolario che non fa che rimandare alla severità, al sacrificio, al rigore, alla tristezza, in assoluta controtendenza rispetto alle buone intenzioni con cui il termine stesso fu coniato, prendendo spunto dal greco “diaita” inteso come modo di vivere rivolto al benessere, nel senso più ampio possibile. Al contrario di oggi, nell’antichità il cibo era nutrimento e cura allo stesso tempo, era il rimedio più che la causa dei mali, i consumi erano regolamentati sia da regole politiche che da dettami religiosi, in stretto collegamento con quello che erano le produzioni alimentari e la disponibilità delle derrate, nonché legato alla natura di ogni individuo.
Noi stessi, infatti, non siamo riducibili esclusivamente alla nostra parte corporea, ma abbiamo pensieri, sentimenti, emozioni che partecipano con ormoni, enzimi, sinapsi a comporre l’intricato puzzle che siamo, ricco di variazioni e variabili che ci rendono tutti simili e, allo stesso tempo, tutti diversi. Allora, se è comprensibile che se voglio perdere qualche chilo non debba andare a scomodare Socrate o Nietzsche, allo stesso tempo è limitante pensare che il nostro benessere sia legato, o ancora peggio rappresentato, esclusivamente dalla taglia che portiamo.
Tempo fa un mio caro amico, in eterna lotta con il proprio peso e il proprio corpo, mi disse che nessuno dei dietologi e nutrizionisti, da lui interpellati, gli avesse mai chiesto banalmente: “Come stai?”. Questa confidenza mi ha fatto realizzare che la medesima esperienza sia stata vissuta da molti di noi che si sono trovati, almeno una volta, ad essere misurati in chili e centimetri da un medico, quasi come se l’obiettivo di tornare in un’unica forma standardizzata fosse talmente prioritario da divenire il solo aspetto importante della vicenda, trascurando tutto il resto, come: che lavoro fai? Cosa ti diverte? Cosa ti annoia? Mangi piccante? Ti svegli presto? Cosa ti fa arrabbiare? Cosa fai quando sei triste o non riesci a dormire?
Un resto denso e significativo, sebbene non tangibile, non trovate?
Storia dei modelli “dietetici”: quando abbiamo iniziato accostare il senso di dieta a quello di privazione e forma fisica
Questo interesse nei confronti della forma fisica è piuttosto recente: trova riscontro agli inizi del 1800, quando la nascente classe borghese si ispirava ai modi e alle mode dell’aristocrazia e la diffusione della carta stampata faceva viaggiare notizie, immagini e gossip molto più velocemente rispetto a prima.
La Regina Vittoria e l’Imperatrice Elisabetta d’Austria diventarono icone di stile e, esclusive rappresentanti e promotrici dell’eleganza e della femminilità, dettarono – più o meno consapevolmente e principalmente alle donne – le regole dello stare al mondo per buona parte del secolo: dal galateo alla cultura generale, dal modo di andare a cavallo a quello di abbigliarsi, senza tralasciare l’alimentazione.
Mentre nascevano i ristoranti e i primi gourmand, rigorosamente uomini, l’interesse femminile per i piaceri della tavola era mal visto nella buona società, in quanto associato ad avidità, bramosia, incapacità di controllo e ovviamente appetito sessuale: i peccati di gola sono considerati volgari quanto una scollatura troppo profonda e le rotondità, tanto apprezzate in passato, diventano indizio inconfutabile di indoli ribelli e peccaminose, a differenza della magrezza e del pallore che, riconosciute come prova di virtù e affidabilità, hanno l’esigenza di manifestarsi, in modo quasi ossessivo, nel punto vita da vespa, sempre più minuto e sottile, ottenuto con l'ausilio di corsetti rigidi e striminziti al pari dei pasti. Da questo momento in poi e con poche eccezioni, prende piede la cultura del magro, parallela a una “grassofobia” crescente, che si consolida decennio dopo decennio grazie al susseguirsi di testimonial d’eccezione: dapprima le dive del cinema muto di inizio Novecento – snelle e slanciate, quasi diafane – seguite a staffetta dalle fotomodelle degli anni Settanta, le top model degli anni Ottanta, fino alle influencer dei giorni nostri.
L’apparenza prende il sopravvento e diventa status, escludendo tutto il resto, a scapito di un benessere che è più fisico che generale, sempre più distante da quella concezione che Ippocrate, Galeno e molti altri studiosi della dietetica antica consideravano un valido e salutare modo di vivere.
Dieta: l’importanza di una visione olistica contro i modelli standardizzati
In tutta la giungla di diete dimagranti e miracolose che si sono susseguite dai digiuni della Principessa Sissi in poi, si è perso il più sensato obiettivo della dieta, ovvero la pratica di uno stile di vita che, quotidianamente, possa accompagnare e supportare le nostre azioni e i nostri pensieri, con naturalezza, costanza e gradevolezza. Una lacuna che andrebbe colmata e rifunzionalizzata: i tempi sono maturi per recuperare la dimensione olistica della dietetica, arricchendola di contenuti freschi e multiformi, che tengano conto delle nostre caratteristiche genetiche, esistenziali, caratteriali e anche sociali, convertendo il paradigma che invece di imporsi e sovrastarci con il “belli e magri”, ci accompagni con un più distensivo e sartoriale “sani, sereni e contenti”.
Per esperienza lavorativa e personale, più volte mi sono trovata di fronte ad esperti che, invece di trovare un bilanciamento tra ciò che siamo, ciò facciamo e ciò che mangiamo, hanno preferito applicare modelli di dimagrimento comuni e omologati: pochi ingredienti, trasformati sempre nello stesso modo, più assemblati che abbinati, vanno a ricalcare quella tristezza di lessico che confermano una mestizia, anche gastronomica, così poco desiderabile che non può che essere osservata che a tempo determinato.
Ora, io comprendo che non tutti siano cuochi provetti e abbiano l’esigenza di trasformare ogni pasto in un’esperienza gourmet, ma non dovremmo comunque mortificare il nostro istinto, gaudente per natura, né la nostra intelligenza – cognitiva, creativa e sensoriale – acquistando zucchine in qualsiasi stagione dell’anno, condannando petti di pollo a cotture infelici o poggiando sul piatto un’insalata, invece di prepararne una diversa ogni giorno, alternando sapori, colori e consistenze: non ridurre tutto ad una questione di assunzione e consumo di calorie, ci regalerebbe visione più allargata possa offrire maggiori soluzioni, opportunità e piaceri, senza perdere di vista la salute, nostra, dell’ambiente che ci circonda e nemmeno del portafoglio. Una dieta veramente orientata al benessere generale non deve stravolgerci la vita, privandoci di tutto ciò che amiamo fare e mangiare, ma può cominciare dal non fare un distinguo così netto tra il dovere e il piacere, raggiungendo piuttosto un pacifico e più rasserenante equilibrio tra questi due fulcri: una coesistenza possibile, atta a condurre una vita in salute con compromessi vivibili e sostenibili, sia a livello umano che ambientale, nonché economico.
Dieta non significa bandire il gusto: ecco alcuni consigli
3 anni fa ho creato il progetto Gastronomic Diet, che unisce i principi della nutrizione a quelli della gastronomia, senza trascurare anche gli aspetti emotivi dell’individuo. In collaborazione con un nutrizionista sportivo, ho elaborato ricette che seguissero le linee guida di una sana alimentazione arricchendola con le tecniche di selezione, abbinamento, cottura e trasformazione degli alimenti che prendono spunto dalle scienze gastronomiche, vi ho aggiunto una vivace attività motoria sotto la supervisione di una personal trainer e infine anche una cura dello spirito e delle emozioni con l’aiuto di una psicologa preparata sul tema. Gastronomic Diet prevede quindi la collaborazione di almeno quattro professionisti diversi che collaborano per raggiungere o aggiungere lo stare bene, dentro e fuori: nessun cibo è vietato, nessun cibo è miracoloso, ma tutti cooperano per il raggiungimento di uno stato di salute esteso e duraturo, nel rispetto dell’età, della genetica, dei gusti e dei disgusti, dei piaceri e dei dispiaceri dell’individuo. Non vi è improvvisazione, ma moltissimo studio, dove ogni professionista presta la propria competenza alla scoperta di un diverso modo di intendere il benessere e, in conclusione, anche la vita, riconoscendo che ogni persona è un mondo meraviglioso ed eccezionale, che sfugge agli standard e alle statistiche.
Mi spiace se ho deluso le aspettative di chi ha letto sin qui nella speranza di trovare il Sacro Graal della dietetica senza trovarlo. Mi metto però a disposizione nel continuare a ricercare il modo migliore per continuare a fare il mio mestiere, cercando e studiando gli ingredienti e gli abbinamenti migliori per coccolare la salute e il palato e condividendo tutto ciò che ho scoperto e ancora scoprirò, a cominciare da ciò che segue:
- i sensi di colpa appesantiscono più dei carboidrati;
- l’intolleranza al lattosio, così come altre allergie alimentari, insegnano che non dobbiamo per forza sopportare tutto;
- Il petto è la parte del pollo più costosa da acquistare e più difficile da cucinare: per ottenere una pietanza succulenta conviene optare per altri tagli, come la sovra coscia disossata di polli allevati senza fretta e senza antibiotici;
- regalarsi un’ora di camminata al giorno migliora l’umore, il livello di autostima, la qualità dei pensieri e anche del fisico. Nel frattempo, si può ascoltare musica, fantasticare, scambiare piacevoli chiacchiere con qualcuno o anche stare in assoluto silenzio;
- non è mai tardi per volersi bene e un cioccolatino non rovinerà né le nostre arterie, né i nostri programmi;
- trovare modo e tempo per regalarsi attenzioni, cure e piaceri libera endorfine: un rimedio gratuito che siamo in grado di produrre autonomamente, se attiviamo gli “interruttori” giusti;
- prestare ascolto e ricambiare attenzione a chi, oltre a chiederci “come stai?”, ascolta anche la risposta.
La formula proposta è quella provata sulla base della mia esperienza e degli specialisti che ho avuto il piacere di incontrare sul mio cammino, ma può essere applicata sempre e comunque, avvalendovi dell’aiuto di professionisti a vostra scelta, purché si tratti persone competenti e in linea con la filosofia proposta.
Fonti:
A. Grandi, Storia delle nostre paure alimentari, come l'alimentazione ha modellato l'identità culturale, Aboca Edizioni, 2023
G. Signore, Storia delle abitudini alimentari, dalla preistoria ai fast food, Tecniche Nuove, 2010
M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, 2008
M. Montanari, La fame e L’abbondanza, Laterza, 2006