Anche noto come glühwein nei paesi di lingua tedesca, come vin chaud in quelli francofoni, come mulled wine in Gran Bretagna e glögg in Svezia – da non dimenticare il negus, un cugino tanto amato dalla letteratura degli scrittori del XVIII secolo come Emily Brontë che lo menziona in "Cime tempestose", o Charles Dickens nel suo "David Copperfield" – il vin brûlé è una bevanda calda a base di vino, solitamente rosso, con l’aggiunta di zucchero e spezie e, volendo, di arancia o mandarino. Per tradizione lo si beve dall’avvento fino alle porte del Carnevale.
Le antiche origini del vin brûlé
Diffuso in numerosi Paesi europei, le sue origini affondano nella storia dell'Antica Roma, dove Apicio con il suo libro “De re coquinaria” – unico documento gastronomico del periodo romano arrivato fino a noi – testimonia l’usanza di bere un certo conditum paradoxum: vino dolcificato con miele, scaldato più volte e aromatizzato con zafferano, pepe, foglie di nardo e datteri, offerto per tradizione agli ospiti a fine del pasto. Nel Medioevo, poi, quando il vino entra in cucina, è l’ippocrasso ad avere un ruolo di rilievo sulle tavole ed essere quello che più si avvicina all’idea di “vino cotto” odierna, seppur venisse mescolato e servito a freddo. Preparato con vino, spezie e zucchero, l’ippocrasso era un cocktail immancabile alla fine di ogni pasto ed era considerato una miscela di gusto, salute e lussuria. Tra le spezie usate per questo vino aromatizzato predominava la cannella, seguita da zenzero, chiodi di garofano e noce moscata. È in questo periodo che mani esperte hanno sposato con passione vini e spezie, erbe e sapori zuccherini, creando una vera e propria categoria di vini cosiddetti “speciali” in cui il vino era protagonista come base per la semplice decozione di erbe, o come ingrediente di ricette ben più articolate in cui al vino venivano aggiunte preziose miscele di spezie venute da Oriente, producendo così un prodotto di altissimo pregio e non alla portata di tutti.
L’aggiunta di spezie al vino per inventare un gusto nuovo
Sfatiamo un mito: l’aggiunta di spezie al vino non era una necessità per mascherarne la scarsa qualità! Il mondo medievale ha un elenco vastissimo di vini aromatizzati e speziati che vanno ben oltre l’ippocrasso, a testimonianza del fatto che l’idea di aggiungere ingredienti al vino per mascherarne la scarsa qualità è uno stereotipo e convinzione errata.
Come spiegano gli storici Alberto Capatti e Massimo Montanari nel loro “La cucina italiana. Storia di una cultura”: “l’aggiunta di sapori artificiali al vino si faceva non con lo scopo di mascherare un gusto ma con quello di inventarne uno”. Tanto che il manuale di economia domestica scritto nel 1393 da un uomo per la sua giovane sposa, il “Ménagier de Paris”, riporta una ricetta del celebre ippocrasso precisando il tipo di vino da utilizzare: “il miglior vino di Beaune che si possa trovare”, a sottolineare, dunque, che l’aggiungere spezie ai vini era di sicuro una scelta – e non una necessità – dettata non solo da una cultura del gusto ma anche da basi dietetiche che vedevano queste bevande curative, perfette per scaldare e digerire. Non dimentichiamo che in quel periodo i pregi salutari di una sostanza erano riconosciuti soprattutto dal suo gusto: se è buono al palato è anche amico del benessere!
C'è qualcosa di magico nel respirare i vapori di un buon vin brûlé, soprattutto quando fuori fa freddo. Cannella e chiodi di garofano solleticano le narici insieme alle note acidule del vino in ebollizione e il pensiero è solo quello di rannicchiarsi al caldo per gustarne tutto il suo calore. Vi è venuta voglia di inebriare casa con questi ineguagliabili vapori speziati e dolci borbottii? Allora, oltre alle ricette del classico vin brûlé o del glogg, le nostre proposte fanno per voi:
Caro vin brulè (1./3)
Millevoci 22.12.2022, 10:15
Fonti:
Yann Grappe, "Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel Medioevo", Editori Laterza, 2006
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