Scrittore, saggista, giornalista e anche regista, Emmanuel Carrère è uno dei più importanti autori francesi contemporanei. In questi giorni è a Locarno, dove fa parte dei membri della giuria del concorso internazionale del Pardo.
Lei lo scorso anno ha passato una settimana con Emmanuel Macron, restandone molto colpito. Ultimamente è in caduta libera nei sondaggi. E la sua popolarità è ai minimi...
"Il mio era un reportage. Ho cercato di capire quali sono le armi della seduzione che esercita. Ma provando al contempo a difendermi da questo fascino. E' un ritratto di Macron. E, certo, ne sono stato intrigato: perché è un animale politico davvero particolare e molto interessante. Detto questo, io non sono un suo fan e dunque, del fatto che il suo gradimento nei sondaggi sia in calo, me ne frego. Non è un mio problema. Io credo che, per avere un destino storico, una carriera politica di grande spessore, ci voglia pure una sconfitta. Una Beresina. E' l’unica cosa che gli manca. E forse gli capiterà".
In Italia ora invece il personaggio del momento è il giovane lepenista Matteo Salvini…
"Si. E mi sembra che sia al contempo più inquietante e più variegato degli uomini politici, come si dice, populisti del momento. Anche se bisogna diffidare di questa etichetta. In Europa oggi ce ne sono molti. E penso che Macron sia tutto sommato più singolare".
Dove sta andando, questa Europa, secondo lei?
"Non ne ho la minima idea. Non ho talento per l’analisi politica. Sono capace di scrivere dei reportage su soggetti politici, ma senza commento. Ci sono due famiglie di giornalisti: quelli da editoriale e quelli da narrazione. Non dico che una categoria sia meglio dell’altra, ma chiaramente io appartengo alla seconda famiglia. Sono capace di cercare di capire una situazione a partire, per esempio, dalla complessità del fattore umano. Ma ho bisogno di narrazione, di personaggi. Quello che mi interessa è l'essere umano, a volte compreso nella sua dimensione politica".
Lei si è appassionato di diversi personaggi: complessi, discussi, spesso in grande difficoltà e con vite vissute ai limiti…
"Esatto. Ed il personaggio sul quale ho scritto che si avvicina maggiormente al profilo del politico è Limonov, che è comunque un politico... molto particolare (ride, ndr.)”.
Cosa la affascina invece dei criminali?
"Credo che uno scrittore che si interessa della natura umana sia affascinato da un momento preciso: quello del cambiamento. Quando si passa da un’umanità comune ad un'altra che ha invece una specie di dimensione tabu, un’umanità separata, quella appunto dei criminali".
E lei li descrive con una grande attenzione per i dettagli…
"Si. La cosa più interessante sono proprio i dettagli. Ma questo sia che si scriva di un politico che di un criminale. O pure una storia d’amore. Il dettaglio è centrale".
Nel 2016 invece lei è stato a Calais - nell’inferno della cittadina francese sulla Manica, dove si accampavano migliaia di disperati provenienti dalle zone più povere e tormentate dell’Africa e del Medio Oriente - per scrivere un reportage su questa città e sui suoi abitanti. Si sente un intellettuale impegnato?
"Assolutamente no. A Calais c’era quell’immenso campo migranti, che veniva chiamato la "giungla" che nel frattempo è stato smantellato. C’erano tantissimi giornalisti, scrittori, cineasti ed operatori umanitari che facevano un lavoro straordinario. Io però non ho fatto un reportage sulla "giungla", ma sugli abitanti di Calais, sia quelli generosi ed aperti verso i migranti sia quelli più ostili e molto meno ospitali. Ho ascoltato gli uni e gli altri, cercando di capire la complessità della loro esistenza, delle loro esperienze, delle loro ragioni".
Con empatia?
"Si. Per quando fosse possibile. Sicuramente".
Wikipedia definisce così il suo lavoro: "La maggior parte delle sue opere sono incentrate sulla riflessione su se stesso e sul nesso fra illusioni e realtà". E’ d’accordo con questa definizione?
"No, avrei più che altro l’impressione di una sorta di rapporto, o diciamo, di tensione, che spero sia fertile, tra se stessi, come giustamente dicono, ed il mondo esteriore. Che è vasto. Io cerco di trovare una maniera di parlare del mondo e al contempo di se. Non si può farlo in maniera astratta. Perché accediamo al mondo attraverso noi stessi e la nostra coscienza. E dunque credo sia necessario partire da se stessi e della propria esperienza. Sa, io non credo all’oggettività. Dunque, stabilito che noi possiamo dire qualcosa sul mondo solo in maniera soggettiva, tanto vale assumerla. E ciò comprende anche i propri limiti, le ignoranze e tutto quanto non riusciamo a capire. Credo più in questo approccio, che nei discorsi sulla verità".
Dunque per lei, la scrittura, è più che altro una questione di coscienza…
"Si, direi. Perché questa definizione sull’illusione e la realtà... non mi convince per niente. Io osservo, cerco di capire, eventualmente pure di compatire. Alla fine il trucco è vecchio come il mondo: bisogna cercare di fare in modo che niente di quanto è umano ci sia estraneo. Compresi i criminali e le persone che hanno idee politiche che non condividiamo".
Provando anche delle emozioni…
“Si. Sia le mie che… quelle che non sento mie. E cercando, se non proprio di condividerle, perlomeno di avvicinarmici”.
In un’intervista lei ha detto che ha impiegato sette anni a redigere il libro "Il regno". E che, una volta terminato, era triste…
"Si, ero molto felice di scriverlo. E mi manca. Mi sono sentito un po' orfano, quando l’ho finito".
Dunque non smetterà mai di scrivere?
"Non so. Spero di no. Ma per ora non ho un tema. Mi piacerebbe essere al lavoro su un nuovo libro, ma non è il caso. Ho una specie di blocco dello scrittore. E allora faccio altro: reportage, cinema...".
Joe Pieracci
Carrère in giuria al Pardo