Cultura e spettacoli

Grande raccordo anulare: le uscite

In omaggio al vincitore, un commento ai premi come se fossimo sul GRA

  • 08.09.2013, 08:49
  • 05.09.2023, 17:54
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Gianfranco Rosi

  • KEYSTONE

L’anello stradale che circonda Roma a me ricorda soprattutto quella fantastica parodia in cui Corrado Guzzanti prende per i fondelli Venditti e la sua enfasi da Cupolone. Da oggi però toccherà (e chissà se veramente rimarrà nella memoria: diversi vincitori del passato non l’hanno fatto) tener conto anche di “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi, il documentario che all’annuncio del Leone d’oro è riuscito a ridurre la sala stampa veneziana – basita – ad un silenzio assordante.

Non che si tratti di un’opera priva di valore o indegna di riconoscimenti, ma davvero che portasse a casa il Leone d’oro pochi lo presumevano (e infatti pare che un improvvido microfono aperto abbia lasciato trapelare il sussurrato “non ve l’aspettavate” detto da Bertolucci dopo la proclamazione ufficiale). Rosi – che tra le tante altre cose in carriera ha lavorato anche sul set di “Face Addict” del ticinese Edo Bertoglio – incassa i dividendi di un lavoro ben svolto, che dà voce e visibilità ad alcuni bizzarri marginali, personaggi “da raccordo” degni di un road movie.

Ma a noi il Palmares (Leonares? No, suona male) decretato da Bernardo e gli altri (tra cui anche il nostro Renato “Ciccio” Berta) è andato giù fino ad un certo punto. E allora senza proporre 33 tappe come le 33 uscite del Grande Raccordo Anulare, ridisegniamo i premi:

Uscita Numero 1: Gran Premio della Giuria – Va a “Cani randagi” di Tsai Ming Liang, film taiwanese ostico e pieno di momenti statici, ma decisamente potente nel tratteggiare la vita di un padre che vive coi figlioletti in un cumulo di rovine. Meritava forse il Leone d’oro, ma va benissimo così.

Uscita Numero 2: Premio Miglior Regia – Va a Alexandros Avranas per “Miss Violence”, Grecia. Storia cupissima di un nonno-padre che sembra perfetto e si rivela aguzzino, violentatore, orco casalingo, mantenendo una calma che fa ribrezzo. Meritato? Nel pomeriggio di sabato si era parlato (i soliti rumors) di possibile Leone d’oro, ma pure in questo caso va benissimo così.

Uscita Numero 3: Coppa Volpi Miglior Attore – Va di nuovo a “Miss Violence” e a Themis Panou, eccezionale nel rendere le due facce opposte di un personaggio che è bonario patriarca e sotto sotto bastardo all’ultimo stadio. Premio che non poteva che andare a lui. Bene così.

Uscita Numero 4: Coppa Volpi Migliore Attrice – La Svizzera italiana nel suo piccolo gongola, perché vince l’italiana Elena Cotta di “Via Castellana Bandiera”, il film di Emma Dante coprodotto anche da ventura film Meride e dalla RSI. Interpretazione degnissima, seppur laconica ai limiti del mutismo, ma almeno l’immensa Judi Dench di “Philomena” e la cammellata Mia Wasikovska di “Tracks” erano parse più mattatrici. Fuori classifica Scarlett Johansson, di abbacinante nudismo extraterrestre in “Sotto la pelle”, film talmente abortito da spingere il pubblico a fischiare la diva.

Uscita Numero 5: Premio Marcello Mastroianni all’attore emergente – se lo becca un volto giovanissimo che già promette di bucare ben presto lo schermo come un Brad Pitt. Tye Sheridan era uno dei bambini di “Tree of Life” di Malick e qui vince per il ragazzo in cerca di speranza di “Joe”. Affiancato a Nicolas Cage, che gigioneggia come al solito in preda al personaggio di se stesso, riesce a farsene erede e successore, almeno nella trama del film. Il premio decisamente ci sta.

Uscita Numero 6: Premio Migliore Sceneggiatura – Ma come? Ma “Philomena” di Stephen Frears mi arriva solo all’uscita numero 6 del GRA veneziano? Era il più convincente di tutti per tutti. Era il più emozionante. Certo, anche formalmente convenzionale, ma la storia della vecchia signora che va in cerca del figlio perduto, o meglio rubato dalle suore quando lei era adolescente, procura il groppo in gola. Non volevate dargli il premio principale? Ma allora perché non premiare la Dench? Vabbè, onore a Steve Cogan e Jeff Pope, gli sceneggiatori nel frattempo scappati a Toronto per partecipare a un festival che sta soppiantando gradualmente quello veneziano. Forse questo premio poteva andare al film del giovanissimo canadese Dolan, “Tom à la ferme”, rimasto invece a bocca asciutta.

Uscita Numero 7 – Premio Speciale della giuria – E qui la Svizzera italiana sorride di nuovo. Certo, il film è tedeschissimo, ma la coproduzione minoritaria di ventura film Meride (che fa il bis) e della RSI c’è pure qui. Il regista è Philip Gröning, quello di “Il grande silenzio”. Se lì era la pace del mutismo monastico ad essere indagata, qui “La moglie del poliziotto” tratteggia in tre ore e sessanta capitoletti l’omertà che vige in una coppia in cui lui picchia lei. Impegnativo, non proprio adatto ad una serata spensierata, ma premio ragionevolissimo.

Uscita Numero 8 – quella di tutti i “trombati”. Di Dolan (che pure personalmente non ho amato, ma che aveva una sua forza) abbiamo già scritto. Eclatante la controprestazione degli americani: premietto a “Joe”, certo, ma poi “Figlio di Dio” di James Franco (l’attore Scott Haze poteva legittimamente ambire) rispedito al mittente, “Parkland” su Kennedy non pervenuto, il documentario su Rumsfeld di Errol Morris riconsegnato a Morfeo e ai sonni che produce, l’ecoterrorista “Night Moves” di Kelly Richards disperso. Quasi lo stesso per gli altri anglosassoni: l’australiano “Tracks” rimasto nel deserto coi cammelli, il teorema distopico di Terry Gilliam sparito nel nulla, “Sotto la pelle” del britannico Glazer ridato agli alieni insieme ai fischi e a Scarlett. E infine, per fortuna, anche l’ora e mezza in piano sequenza dell’israeliano Gitai, tutta chiacchiere e bella faccetta di una giornalista che gironzola tra le baracche di un quartiere, è rimasta lettera morta.

Uscita Numero 9 – quella per il traghetto Lido-Tronchetto con cui ce ne torniamo a casa, consapevoli che quest’anno Cannes ha fatto ancor più del solito impallidire Venezia, che invece ha proposto un’edizione appena media. Di cui ricorderemo una scena: Sandra Bullock che fluttua vestita da jogging nello spazio in “Gravity”.

Marco Zucchi

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