“Non conosco la musica ma la musica conosce me”
È una delle frasi più significative pronunciate da Reda Kateb nei panni del mitico chitarrista gipsy jazz Django Reinhardt nel film di Etienne Comar che ha aperto la 67esima edizione della Berlinale.
Un’affermazione – in risposta alla domanda di un ufficiale tedesco che, prima di un’esibizione, vuole sapere se Reinhardt sappia leggere uno spartito - che restituisce il valore di un rapporto simbiotico fra un artista e la sua arte. Ma dietro a Django c’è molto di più perché il racconto si focalizza sul difficile periodo storico che va dal 1943, quando il musicista belga di origini gitane si trova a Parigi e deve scappare per via delle persecuzioni naziste, alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945. Un fuga complessa con la moglie incinta (la mora bella e brava Beata Palaya, cui fa da contraltare la bionda amante del marito Cécile de France) e la madre, che lo portò prima a Thonon per poi attraversare il Lago di Ginevra e raggiungere la Svizzera. Sconfitto Hitler, ritroviamo Django a Parigi che dirige un Requiem (da lui composto ma di cui sono arrivati a noi solo alcuni frammenti) in memoria dell’olocausto della popolazione gitana, evento rimasto per decenni nell’ombra.
Un inizio forte emotivamente e politicamente per questo Festival di Berlino che sembra ribadire la potenza dell’arte, in questo caso musica o cinema che sia .
Francesca Felletti
Dal TG20:
Berlinale al via
Telegiornale 09.02.2017, 20:00