Il 16 ottobre 1943 era un sabato. I nazifascisti arrivarono alle prime luci dell’alba, cercavano casa per casa gli ebrei che abitavano nel ghetto e non solo. Pochi minuti per portare via “alcuni oggetti di valore e qualcosa da mangiare”, come recitava un piccolo foglio scritto e consegnato dai soldati. 1’259 persone: uomini, donne, bambini, persino neonati. Prima radunati per strada, poi portati via. Deportati. Per loro si aprirono i campi di sterminio. Solo in 16 fecero ritorno. Nessun bambino.
“Non chiamatemi sopravvissuta. I sopravvissuti sono quelli che hanno avuto questa esperienza terribile e sono riusciti a tornare. La categoria di persone come me, quella che ha vissuto in quel quadrante di storia li chiamiamo gli scampati”. Lia Levi ci tiene a fare le dovute distinzioni. “Quando qualcuno, anche nelle domande, mi mette in quella categoria generale sento un senso di colpa enorme. Abbiamo avuto delle vicende difficili, difficoltà, un’infanzia lacerata certo, la sofferenza per le leggi razziali, anche punte di dolore però niente che si possa paragonare a chi è stato nei campi dello sterminio”. Incontro Lia Levi nel suo appartamento romano a Trastevere. Sul tavolo, la copia del diario e dei disegni ritrovati in un cassetto dopo tanto tanto tempo, che raffigurano le sue sorelle e le suore del collegio cattolico in cui hanno trovato la salvezza.
I disegni
Mi racconta di quel senso di colpa di essere scampati alla deportazione, ai lager, alla soluzione finale. Quella strana sensazione di inadeguatezza quando parla da testimone della Shoah.
“Quel senso di colpa onnipresente di essersi salvati perché i tuoi genitori sono stati più previdenti rispetto a quelli della tua campagna di banco” racconta Lia Levi, che quel 16 ottobre 1943 era nascosta con le due sue sorelle nel collegio delle suore di Giuseppe di Chambery. E questo perché rispetto ad altri, i suoi genitori non si fidarono delle rassicurazioni dei nazifascisti, che avevano occupato Roma il 10 settembre 1943.
“Gli ebrei erano spaventati ma fino a un certo punto, perché Roma è la città del Papa, tutti erano convinti che i tedeschi non avrebbero mai osato rastrellare e deportare gli ebrei sotto gli occhi del Pontefice. Ma poi iniziarono i primi atti antiebraici, culminati nella richiesta alla comunità ebraica di raccogliere 50 chili d’oro per non essere perseguitati”. Oro che riuscirono a raccogliere. Ma non servì a nulla.
Il rifugio in un istituto religioso
I genitori di Lia non abitavano nel Ghetto, ma a Monteverde; seppero del rastrellamento da un veloce giro di telefonate che scattò tra i membri delle comunità. Anche loro scapparono alla ricerca di rifugio in un istituto religioso vicino. Lia il 16 ottobre 1944 lo ricorda anche per il grave trauma psicologico subito.
“Mia madre venne al collegio, ci disse quello che era accaduto, che non avrebbe mai pensato potessero arrivare a tanto. Allora le dissi quando voi ci dicevate di stare tranquille, che ci avevate messe qui solo per precauzione, mentivate. In realtà non sapevate nulla di quello che stava accadendo e non potete fare nulla. Insomma, in quel momento capì che i genitori non potevano proteggere i loro figli, che i grandi non potevano salvare noi piccoli. Una presa di coscienza terribile” racconta Lia.
Quel 16 ottobre 1943 molti ebrei bussarono alle porte degli istituti religiosi cattolici di Roma per trovare protezione. Non tutti aprirono, era molto pericoloso, anche le suore e i preti rischiavano la vita. Non tutti potevano pagare la pensione, in alcuni casi non c’erano più posti. Molti altri invece accolsero senza se e senza ma.
“Le suore ci hanno accolto bene. Non l’avrebbero fatto se non lo avessero sentito da dentro. Però che fossero gentili, accoglienti, o che ti accarezzassero perché eravamo perseguitate questo no. Anche perché si comportavano in maniera normale, poi sarebbe stato pericoloso perché avrebbe attratto l’attenzione delle bambine cattoliche, che avrebbero potuto sospettare dire qualcosa a casa…temevamo le delazioni.” Lia e le sue sorelle dovettero imparare le preghiere, addirittura in latino e con loro imparare una nuova identità.
Una nuova identità
“Le suore mi avevano dato i documenti di una ragazzina della mia stessa età, dell’Italia del Sud che a causa della guerra dopo le vacanze estive non era potuta tornare in collegio. La paura che i tedeschi entrassero nel convento a effettuare perquisizioni era tanta. Un’unità aveva occupato una villa non distante dal collegio. La bambina di cui presi l’identità si chiamava Maria Cristina Cataldi. Nei momenti di grande paura invece di recitare le preghiere io mi tranquillizzavo ripetendo sono Maria Cristina Cataldi come dire non mi può succedere niente”.
Il 4 giugno 1944 Roma viene liberata per Lia Levi e la sua famiglia inizia una nuova vita, non meno difficile.
“Il momento della liberazione è stato il momento più felice. Tutti a festeggiare, tutti a dire il proprio nome vero, è stata un’esplosione di gioia. Vedersi liberati, fare ritorno a casa è stato un po’ deludente. La nostra casa di Montemario era piccola, mal ridotta… non c’era la luce e poi eravamo assolutamente senza soldi. Come quasi tutti. Ma insomma è stato duro. Però il senso della libertà prevaleva su tutto”.
Vive con sofferenza questi giorni. Lei che ha fondato la rivista Shalom, pace, oggi vede la pace molto lontana. E la sensazione è di essere tornata a quei giorni della sua infanzia. “Questa tragedia è simile alla Shoah, lo capisci dal fatto che Hamas dica di avere ucciso degli ebrei, non cittadini israeliani. Temo dunque che siamo di nuovo davanti a una persecuzione degli ebrei in generale. Io sono una cultrice di Amos Oz, che diceva che sarà dura per tutti e due, perché ambedue saranno scontenti. È questo il prezzo della pace. Ma se il tuo interlocutore non vuole riconoscere Israele, non accettano la sua esistenza, come si fa a trattare? La pace al momento la vedo lontana.
80 anni fa la deportazione degli ebrei romani
SEIDISERA 16.10.2023, 18:46